Chi, come il sottoscritto, si professa di sinistra, ha forse qualche ragione per vedere positivamente l’insediamento del nuovo governo? Qualche ragione oltre a quella banale che un Paese ha bisogno di un governo e che è giusto che chi vince le elezioni possa governare. Ci possono essere insomma dei motivi per non cadere nello sconforto, o addirittura per giustificare qualche aspettativa in positivo?

Chiariamo subito un punto: il governo che si è appena insediato propone politiche il cui segno complessivo è chiaramente di destra. Penso alla proposta di bandiera della flat tax, con i suoi effetti negativi sul grado di progressività del nostro sistema fiscale; penso all’approccio al tema della sicurezza, pensato in termini prevalentemente repressivi; penso infine alla stretta sull’immigrazione, che fa ricorso a parole d’ordine semplicistiche (l’espulsione di tutti gli irregolari) e che potrebbe mettere a rischio il rispetto di diritti umani essenziali. Iniziative preoccupanti anche per chi consideri la necessità di interventi di semplificazione fiscale e voglia prendere sul serio il tema della sicurezza nelle periferie urbane e i problemi posti dall’immigrazione non regolata.

Accanto alla preoccupazione, che richiederà attenta vigilanza e all’occorrenza capacità di mobilitazione, intravedo tuttavia due motivi che mi portano a non dipingere un quadro totalmente negativo, e anzi a considerare la presenza di alcune opportunità.

Il primo riguarda ovviamente il tema della sovranità democratica, che è strettamente legato a quello del rapporto con l’Unione europea. È stato lo stesso processo di formazione del governo, con lo stop del presidente Mattarella alla nomina di Paolo Savona, giustificato sulla base della necessità di rassicurare i mercati e i partner europei, a evidenziare plasticamente il conflitto tra espressione democratica attraverso il voto e potere di condizionamento della finanza. Rispetto a tale conflitto l’architettura europea della moneta unica non è estranea. Per un Paese con elevato debito pubblico l’appartenenza ad un’unione monetaria, lungi dal rappresentare una protezione, è un elemento di fragilità; la funzione di garanzia normalmente svolta dalla banca centrale, essendo demandata ad un soggetto “terzo” che deve mediare tra gli interessi di debitori e creditori, è soggetto a incertezza e a condizionalità che comprimono gli spazi di scelta in tema di politica fiscale (anche oltre quanto formalmente previsto dai vincoli dei trattati). Lungi dall’attenuarli, l’appartenenza all’unione monetaria finisce così per amplificare gli effetti negativi della globalizzazione, comprimendo il ruolo della politica, che da progetto di trasformazione diventa mera amministrazione per conto terzi, e la stessa possibilità di esercizio della democrazia.

Rispetto a questo tema, vanno riconosciute ai “populisti” una capacità di iniziativa e una determinazione che sono finora mancate a sinistra. Se essi continueranno su questa linea, l’Unione europea, che ad oggi si è mossa per inerzia a ha nei fatti frustrato ogni aspirazione di cambiamento, sarà posta di fronte alla necessità di scegliere. Intendiamoci: l’esito può anche essere l’implosione del progetto europeo nella forma assunta a partire dagli anni Novanta, centrato sulla moneta unica, ma se questo succederà non sarà che la conferma che si tratta di una costruzione irreformabile, come sostengono i suoi critici. Su questo versante, la sinistra può certamente lamentarsi del fatto che partiti come la Lega puntino in realtà a far saltare comunque il banco, ma nel caso dovrà rimproverare in primo luogo se stessa per aver capito con tanto ritardo (nei casi in cui l’ha capito) quanto disfunzionale sia la costruzione dell’euro rispetto al progetto di cooperazione e integrazione europea.

Il secondo aspetto, anch’esso rilevante, è che in fatto di visione economica questa destra ha alcuni caratteri “eretici” rispetto al pensiero dominante di segno neoliberista. Rispetto a temi quali le politiche di bilancio e la gestione del debito o la politica industriale e il sostegno pubblico ai settori strategici, le privatizzazioni, o la mobilità internazionale dei capitali, le posizioni espresse dai responsabili economici dei partiti che si apprestano a governare rompono alcuni tabù e dogmi che hanno dominato le scelte degli ultimi decenni. La linea di politica macroeconomica espressa da Lega e M5S risente chiaramente di approcci eterodossi di impronta post-keynesiana, con i quali, paradossalmente, una posizione di sinistra ha più affinità di quanta non ne abbia con il mainstream neoliberale che ha egemonizzato la visione dell’economia anche nel Partito democratico e nei partiti socialisti della Terza Via.

Ovviamente, la distanza rispetto a questa maggioranza resta tutta intera su molti altri temi di politica economica, spesso assenti dal programma di governo o declinati in modo discutibile: dalla difesa del welfare universalistico, alla coesione territoriale e ai temi ambientali, alla difesa dei diritti del lavoro. Ma quanto a difesa del lavoro i partiti della famiglia socialista che hanno governato negli scorsi due decenni non hanno certo offerto esempi migliori (vedi Riforme Hartz in Germania o la sequenza di riforme del mercato del lavoro in Italia a partire dagli anni Novanta, culminate nel Jobs Act). Bisogna semmai dare atto alla “destra eretica” di aver riportato all’attenzione il nesso (una volta ben chiaro a sinistra) tra assetto monetario e svalutazione del lavoro. Se questo riconoscimento si tradurrà in politiche effettivamente favorevoli ad un riequilibrio nei rapporti tra lavoro e capitale è certo lecito dubitare, ma andrebbe fatto con l’umiltà di chi è consapevole di aver svolto in modo assai negligente il proprio ruolo storico di difesa del lavoro di fronte alle sfide della globalizzazione.

Nei nostri dibattiti e nei nostri convegni continuiamo a ripeterci che solo un rinnovamento e una discontinuità radicali possono determinare la ripartenza di una soggettività politica di sinistra, in grado di recuperare la propria ragione fondante di difesa degli ideali di giustizia sociale e di emancipazione. Ogni tentativo di autoriforma si è però rivelato finora di corto respiro. Il buio di questi giorni, determinato da una sconfitta che andando indietro nella memoria sembra non avere uguali, potrebbe rivelarsi come una opportunità irripetibile per la sinistra per un ripensamento in profondità del proprio ruolo storico.