Mi sono occupato del settore autostradale alcuni anni fa, nell’ambito di una ricerca sulle privatizzazioni delle attività dell’Iri. Non avendo seguito con il necessario approfondimento le vicende regolatorie degli ultimi anni, mi limiterò qui ad alcune considerazioni sul modello adottato nella privatizzazioni dei settori in monopolio; considerazioni di carattere generale ma comunque rilevanti per il dibattito di questi giorni.

Partiamo dall’inizio, cioè dal problema che uno Stato si trova ad affrontare quando deve sviluppare un moderno sistema di infrastrutture, ad esempio una rete di autostrade adeguato alla crescente diffusione del trasporto su gomma, ma il discorso vale per la maggior parte dei servizi a rete. Si tratta di reperire i capitali per effettuare un investimento a lungo termine e un primo ovvio modo per farlo è indebitarsi per pagare gli appalti di costruzione; in seguito, lo Stato sarà in grado di ripagare il debito contratto e i relativi interessi e di sostenere i costi di manutenzione con i proventi delle maggiori imposte derivanti dalla crescita economica (dovuta anche all’investimento nella rete stradale), cioè attraverso la fiscalità generale, oppure attraverso i pedaggi di chi direttamente utilizzerà l’infrastruttura.

La possibilità di finanziarsi coi pedaggi consente tuttavia una seconda possibilità, che è quella di delegare il compito di approntare l’infrastruttura a investitori privati, dando la gestione della stessa in concessione per un periodo sufficientemente lungo a consentire il recupero dei costi. Questa seconda soluzione pone un ulteriore problema, che è quello di evitare che il gestore dell’infrastruttura, agendo da monopolista, possa applicare prezzi troppo elevati agli utenti, massimizzando i propri profitti ma determinando un utilizzo non ottimale dell’infrastruttura stessa. Il prezzo deve essere sufficientemente alto da remunerare l’investimento effettuato, ma non dovrebbe andare oltre tale livello. Siccome siamo in presenza di un monopolio, questa condizione non può essere garantita dal meccanismo concorrenziale: servirà dunque l’azione regolatoria dello Stato.

Il modo tradizionale con cui si è realizzata la regolazione dei monopoli privati è il seguente: lo Stato (un ministero o altro soggetto pubblico allo scopo costituito) teneva conto dell’investimento effettuato dai privati e dai costi sostenuti per gestione e manutenzione e fissava la tariffa in modo da garantire la copertura integrale dei secondi e un’adeguata remunerazione del primo. Si chiamava regolamentazione del tasso di rendimento perché ad essere fissa e in qualche modo garantita era la remunerazione del capitale investito; garantita, quindi sicura, ma anche per questo contenuta nel suo ammontare. L’investitore aveva la certezza di ottenere un ritorno relativamente sicuro, adeguato ma non tale da suscitare tra i contribuenti e utilizzatori dell’infrastruttura la percezione di una rendita eccessiva.

Questa modalità di regolazione, molto diffusa ad esempio negli Stati Uniti, non era tuttavia priva di difetti. Il principale era che il meccanismo di fissazione dei prezzi, facendo sì che gli effetti di aumenti o riduzioni dei costi si traducessero sistematicamente in aumenti e riduzioni delle tariffe per gli utenti (garantendo cioè una corrispondenza piuttosto stretta tra costi e ricavi), non incentivava adeguati sforzi di contenimento dei costi da parte del gestore privato. Inoltre, la garanzia di rendimento del capitale investito poteva determinare una propensione del privato a effettuare investimenti in eccesso; per evitare questo rischio, il regolatore si riservava di considerare “validi” soltanto gli investimenti effettivamente funzionali all’attività, con un potere di indirizzo di fatto dell’attività di investimento del monopolista.

Non sarà difficile rendersi conto che, alla fine, una tale modalità di regolazione non risultava molto diversa, nella sua logica, da una gestione diretta pubblica. Nel momento in cui il profitto è garantito e la politica di investimenti è concordata con il (se non direttamente fissata dal) regolatore, il ruolo del privato è poco più di quello di un prestatore di capitali a basso rischio. E infatti la scelta tra questo tipo di gestione privata e la gestione pubblica era per lo più questione di preferenze di carattere politico/culturale, o era dovuta alla volontà di perseguire obiettivi ulteriori rispetto alla gestione dell’infrastruttura (ad esempio finalità occupazionali); fatto sta che in Europa prevaleva l’intervento diretto pubblico, negli Stati Uniti il privato regolamentato con regolazione del tasso di rendimento. Così venne garantita la maggior parte dei servizi a rete nel dopoguerra.

Tra gli anni Ottanta e Novanta, anche al fine di fornire giustificazioni più forti alle privatizzazioni in corso o in via di realizzazione in Europa occidentale, il quadro cambiò in modo significativo, con una spinta ad adottare modalità diverse di regolazione, più orientate a indurre comportamenti orientati alla riduzione dei costi. Nacque così la cosiddetta regolazione incentivante, un approccio che cercava di riprodurre nell’ambito dei settori monopolistici gli incentivi presenti in un mercato concorrenziale. Come? Attraverso schemi regolatori che prevedevano un tetto al prezzo applicato dal monopolista (price cap) determinato da una regola prefissata, che il regolatore si impegnava a non modificare per un congruo intervallo di tempo (es. dieci anni). Nell’ambito di questo tetto, si lasciava piena libertà al monopolista sia nell’articolazione della tariffaria (es. tra diverse categorie di utenti), sia nella politica di investimento da effettuare. Quale la logica sottostante? Avendo la certezza di un prezzo fisso, e dunque dei guadagni derivanti dalla differenza tra questo prezzo e i costi sostenuti, il monopolista avrebbe ora avuto il massimo di incentivi al contenimento di tali costi, migliorando l’efficienza gestionale ed effettuando gli investimenti necessari. Proprio come in un mercato concorrenziale, dunque.

Questo nuovo schema, che come dicevamo divenne negli anni Novanta il modello di riferimento per la privatizzazione e regolamentazione dei settori in monopolio in Europa, poneva due ordini di difficoltà. La prima era la fissazione della regola di prezzo, questione che diventava particolarmente delicata, visto che tale regola sarebbe rimasta in vigore, adeguandosi in modo automatico, per un certo numero di anni. Notiamo che un prezzo troppo basso o troppo calante nel tempo avrebbe scoraggiato gli investitori privati dall’accettare il contratto regolatorio; viceversa, un prezzo troppo generoso e stabilmente elevato avrebbe determinato profitti in eccesso, fornendo al regolatore un incentivo a rinnegare la propria promessa. Specialmente a fronte di quest’ultima possibilità, nasceva la seconda difficoltà: era necessario che lo Stato garantisse in modo credibile di non modificare ex post la regola, cioè di non “espropriare” il monopolista dei suoi profitti, visto che ciò avrebbe vanificato gli incentivi a ridurre i costi e investire.

Anche per questa ragione, il compito di regolamentare sarebbe stato affidato ad authority indipendenti (dal potere politico), che potessero rassicurare il monopolista privato sulle buone intenzioni del governo. Autorità di regolazione indipendenti dal politico ma non catturabili dal monopolista stesso: un equilibrio difficile, che infatti in molti casi sarebbe restato solo un auspicio.

Altro elemento cruciale di questo schema, ancor più di quanto non lo fosse per la regolamentazione “tradizionale”, è l’asta per la concessione. L’asta garantisce infatti la concorrenza per il diritto a operare nel mercato e, se ben congegnata, è in grado di surrogare la concorrenza nel mercato, impossibile nel caso di un monopolio naturale. Al di là del fatto che un’asta funziona bene solo quando c’è un numero sufficientemente elevato di partecipanti tra loro effettivamente in competizione (cioè non collusi per spartirsi le concessioni), il vero problema dell’asta si presenta al rinnovo periodico della concessione stessa. Al momento del rinnovo, è infatti estremamente difficile garantire la parità tra chi già opera come monopolista e i potenziali concorrenti che vorrebbero subentrare. Il monopolista ha un ovvio vantaggio (conosce meglio di chiunque altro le condizioni in cui dovrà operare) ma anche uno svantaggio (ha investito capitali non facilmente recuperabili nel caso di perdita della concessione). Proprio per le difficoltà, anche tecniche, di stabilire un terreno di gioco paritario, i governi spesso finiscono per rinnovare la concessione a chi ce l’ha invece di ricorrere all’asta (questo anche a prescindere da collusioni e amicizie politiche).

Questo descrizione, per quanto sommaria, credo sia sufficiente a far comprendere quanto fragile e delicato sia il modello descritto. La regolazione incentivante è astrattamente in grado di perseguire la mitica efficienza, ritenuta difficilmente ottenibile dalla gestione pubblica, ma troppe cose possono andare male: dall’asta, alla fissazione della regola di prezzo, alla credibilità del governo rispetto alla regolazione futura, per citare gli aspetti principali.

In particolare, c’è un punto non risolto di tutto questo schema, e in generale della delega a privati della gestione di infrastrutture: l’azione del gestore richiede un orientamento di lungo, spesso a lunghissimo, termine. Quando abbiamo a che fare con strade o acquedotti, un buon investimento dovrebbe durare decenni; ma quale incentivo avrà ad effettuare investimenti così durevoli un concessionario soggetto alla prospettiva di rinnovi periodici della concessione tramite asta e a regole di prezzo in grado di determinare profitti molto variabili a seconda della capacità/volontà del regolatore di fissare la regola corretta (o quella del monopolista di contrattare una regola favorevole)? Non è difficile capire che questo schema, per il modo in cui è disegnato, espone il monopolista a elevati rischi; rischi per i quali esso chiederà un premio adeguato, prima di imbarcarsi nell’avventura. Non stupisce allora che i profitti siano spesso così elevati: in parte è l’effetto di un regolatore compiacente, in parte la necessità di premiare l’assunzione di rischio del regolato. E non stupisce una generale esitazione ad intraprendere investimenti a lungo termine. Come abbiamo detto, non era così nel sistema tradizionale, dove gli incentivi a contenere i costi erano certo meno forti, ma la remunerazione del capitale, in quanto sicura, era anche più contenuta.

Gli elementi descritti si ritrovano in modo evidente anche nella vicenda di Autostrade per l’Italia. Un errore (se solo errore è stato) nella determinazione della regola di prezzo, fissata senza tenere conto degli effetti dell’aumento vigoroso del traffico autostradale nei primi anni 2000, ha determinato profitti molto elevati già negli anni immediatamente successivi alla privatizzazione. Da ciò sono derivate da un lato la necessità di faticose rinegoziazioni della regola di determinazione del prezzo, dall’altro l’attuale feroce reazione dell’opinione pubblica, che mal sopporta il contrasto tra lo stato percepito delle nostre strade e la generosità dei dividendi agli azionisti. A fronte dei brillanti risultati per gli azionisti, gli investimenti effettuati sono risultati sistematicamente inferiori a quanto programmato; la società concessionaria ha spesso attribuito la responsabilità di tali ritardi a ostacoli amministrativi posti dal pubblico, ma questo non fa che evidenziare la difficoltà di funzionamento di qualsiasi schema incentivante quando le responsabilità di diversi soggetti (in questo caso regolatore pubblico e regolato privato) sono così difficilmente distinguibili.

La necessità di continue revisioni dello schema regolatorio nel (quasi) ventennio dalla privatizzazione delle autostrade e l’attuale contraccolpo negativo nel consenso dell’opinione pubblica rispetto alla privatizzazione delle infrastrutture sono, potremmo dire, il riflesso della distanza tra un modello (troppo) astratto e la pratica reale della regolazione. Relativamente alla tragedia del ponte Morandi di Genova sarà la magistratura a individuare responsabilità di ordine penale e civile. Ma il 14 agosto, mostrando ex post tutta la sua inadeguatezza, si è infranto contro la realtà anche un preciso modello di privatizzazione e regolazione, il modello della regolazione incentivante, con la sua hybris, fatta di fiducia nelle regole automatiche, delega a organismi “tecnici”, astrazione dai vincoli di ordine politico; una chiara eredità del clima culturale degli anni Novanta.