Questa riunione, anche nella sua composizione, nasce da un tentativo di mettere in comunicazione due network, due mailing list: una è quella, composta prevalentemente di economisti e scienziati sociali, che avevamo costruito a suo tempo attorno al dipartimento economico del Pd quando lo dirigeva Stefano Fassina; l’altra è costituita da contatti accademici del Professor Galli. Quindi, abbiamo qui oggi una composizione mista.

Rispetto al quadro generale tracciato da Galli, a me tocca, in questa introduzione, proporre una prospettiva più economica. Ho pensato che a questo scopo potesse essere utile un approccio per così dire autobiografico; non certo per narcisismo, ma perché penso che un breve excursus sui passaggi fondamentali di questi anni − sulle posizioni economiche che sono state mie e di molti altri economisti impegnati a sinistra − sia utile per affrontare il tema Europa, euro, e dintorni. Userò il “noi” per indicare che questi passaggi sono stati il frutto di scambi e discussioni collettive, ma vale naturalmente il solito disclaimer, per cui, come si dice in questi casi, in quello che dirò tutti gli errori sono miei.

Uno sguardo retrospettivo non può che evidenziare un’evoluzione nella percezione del problema, nelle aspettative sull’Europa. Parto dal 2010, dalla crisi, rispetto alla quale rifiutammo fin da subito l’interpretazione allora corrente che fosse una crisi dei debiti pubblici, per sostenere l’idea che la determinante fossero invece gli squilibri esterni. L’interpretazione dominante − che riconduceva il problema agli elevati livelli di debito e alla finanza pubblica − ci sembrava pretestuosa, perché non aggrediva le cause. La nostra interpretazione di allora è stata ora codificata in una consensus view, una narrazione consensuale, sottoscritta da autorevoli economisti (Francesco Giavazzi, Daniel Gros, Richaed Baldwin). Alcuni di questi economisti rivendicano di aver sostenuto questa posizione sin dall’inizio. In realtà, essi nella migliore delle ipotesi hanno lasciato fare, hanno consentito che un’interpretazione moralistica in termini di «cicale» e «formiche» prendesse piede, perché questo faceva gioco a che la crisi fosse comunque un’occasione per una ristrutturazione in senso liberista della nostra economia. A questo noi ci opponemmo.

2011−2012: è il periodo tra la lettera della BCE e il famoso whatever it takes di Draghi; l’idea che l’aggiustamento degli squilibri passi da un lato per il consolidamento fiscale, dall’altro per le riforme strutturali − quindi svalutazione del lavoro. In quella fase non mettevamo in discussione l’euro, perché la convinzione era che la moneta unica fosse il cardine di un progetto politico che la sinistra aveva assunto e di cui si era fatta carico per decenni. C’era quindi una motivazione politica forte, e anche alcune motivazioni di ordine economico: il rischio che, in caso di uscita, si andasse incontro ad «una Lehman al quadrato». Era la cosiddetta «dottrina Eichengreen»: l’economista americano aveva affermato, in modo autorevole e per molti anche convincente, che l’uscita dall’euro avrebbe avuto esiti catastrofici dal punto di vista finanziario.

Dal momento che l’uscita dall’euro era in quella fase fuori discussione, la prospettiva era quella di immaginare «un altro euro», cioè un aggiustamento simmetrico degli squilibri, con politiche espansive nell’area tedesca, un abbandono generale della linea dell’austerity, una BCE prestatrice di ultima istanza, una soluzione duratura al problema del debito attraverso l’emissione di eurobond, adeguati meccanismi che impedissero il dumping salariale. Sono proposte che credo tutti conosciamo, anche perché tuttora vengono avanzate, seppure con una convinzione sempre più debole rispetto alla loro possibile accettazione. Rispetto all’ipotesi deflazione la posizione era, grosso modo, che se 11aggiustamento salariale doveva esserci, che fosse realizzato attraverso la concertazione e non attraverso la liberalizzazione del mercato del lavoro. Questa era, per sommi capi, la posizione con cui, nell’area del Pd che faceva capo a Bersani, si affrontarono le elezioni politiche del 2013.

C’era un moderato ottimismo rispetto alle successive scadenze politiche, si immaginava la possibilità di una modifica negoziata delle politiche europee, sostenuta da alcuni passaggi elettorali: le elezioni del 2012 in Francia avevano visto la vittoria di Hollande (non che i socialisti francesi avessero posizioni molto avanzate sul tema, ma era comunque uno spostamento rispetto a Sarkozy); nel 2013 ci sarebbero state le elezioni in Italia e in Germania; nel 2014 le elezioni europee, e a seguire la presidenza italiana dell’UE. Si sperava che emergesse un nuovo quadro di rapporti di forza in grado di far cambiare direzione all’Europa. Eravamo ingenui? Eravamo certamente troppo ottimisti. Da lì in poi andammo incontro ad una progressiva disillusione sulle possibilità di un cambiamento per via politica. Ci rendemmo conto ad esempio che da parte della principale famiglia della sinistra europea, quella socialista, non solo non c’era la possibilità, ma probabilmente nemmeno la volontà di cambiare la direzione generale di marcia. Questo ci appariva evidente dai contatti ricorrenti con membri dei partiti socialisti di altri Paesi, specialmente quelli dell’area tedesca, oltre che, ovviamente, dalle prese di posizione ufficiali.

Nel frattempo maturava in me, in noi, la consapevolezza che l’euro non fosse mal costruito tanto per un errore di disegno, ma perché quella costruzione era l’unico modo possibile, sul piano politico, di realizzare la moneta unica: i suoi evidenti difetti erano cioè caratteristiche che rispondevano a obiettivi e interessi precisi − per usare la classica terminologia inglese, non erano dei bugs bensì features dell’unione monetaria. A sostegno dell’euro così com’è, c’era e c’è tutt’ora un’alleanza molto forte fra interessi nazionali tedeschi − molto trasversali in Germania, a difesa delle politiche di sostegno all’export − e una parte consistente delle élites degli altri Paesi, anche di quelli che stavano subendo gli effetti peggiori della situazione. Tali élites vedevano e vedono nel vincolo esterno un formidabile strumento di pressione che consente di ristrutturare le economie in senso liberista. Possiamo illuderci quanto vogliamo, ma il famoso cambio di rotta in Europa non era e non è sul tavolo della discussione politica. Sul tavolo c’è altro: c’è la linea Draghi, riforme strutturali più integrazione finanziaria, che è ben esplicitata in documenti come quello cosiddetto «dei cinque presidenti».

Arriviamo così al 2015: la crisi greca ci fa compiere un passaggio ulteriore. Rende chiaro il quadro anche a chi ancora aveva dei dubbi a riguardo. Mostra che l’euro è uno strumento di pressione politica formidabile, tale da rendere irrilevante l’esercizio della democrazia a livello nazionale, almeno nei Paesi con elevato debito che necessitano dell’ombrello protettivo della BCE. Nell’euro il debito rende alcuni Paesi particolarmente vulnerabili e ricattabili e, al tempo stesso, nel contesto dell’euro, la riduzione del debito con qualunque altro strumento è impedita. Gli strumenti che sono sempre stati utilizzati per ridurre i debiti elevati − la repressione fiscale, l’inflazione o il ripudio del debito − sono esclusi, per cui l’elemento disciplinante obbliga a perseguire la strada degli avanzi di bilancio, cioè del consolidamento fiscale a difesa dell’interesse dei Paesi creditori.

Qui termina il mio breve excursus, che illustra il percorso, faticoso e sofferto, con cui da una posizione di appassionato europeismo sono approdato ad una di grande disillusione. Nel frattempo, tra gli economisti e anche tra molti politici a sinistra è sempre più chiaro che l’euro sia stato un errore − e in molti lo ammettono ormai apertamente. Occorre tuttavia precisare che riconoscere l’errore di vent’anni fa non porta necessariamente alla conclusione che dall’euro si possa o si debba uscire − e infatti la questione del futuro dell’euro resta molto aperta nel dibattito. La mia posizione in proposito − ma su questo non voglio soffermarmi, perché vorrei toccare altri temi − è che se ci fosse una strada politica per uscire, i vantaggi economici supererebbero i costi (che pure sono rilevanti). Il problema è capire appunto se tale strada esista, perché continua a non essermi chiaro come un’uscita, magari unilaterale, possa essere il frutto di una decisione politica in senso 12proprio, cioè annunciata, su cui si raccoglie un consenso, si formula una proposta di governo, e questa proposta viene votata democraticamente. Il problema è che la tempistica per organizzare l’uscita è poco compatibile con quella di una decisione democratica. Questo mi pare il problema, politico più che economico, con cui una posizione “no euro” deve misurarsi.

Vorrei aggiungere però due brevi osservazioni, alla luce delle quali la questione dell’abbandono dell’euro non può essere facilmente liquidata. La prima è che la posizione «è sbagliato, ma ce lo teniamo», prevalente tra molti autorevoli economisti anche a sinistra, è a sua volta politicamente debolissima. Con questo non intendo dire che la disfunzionalità dell’euro sia tale da condannare la moneta unica a una fine necessariamente imminente. Una rottura dell’euro è certamente possibile: potrebbe esserci un nuovo incidente, una nuova crisi finanziaria che costringe qualche Paese a uscire; potrebbe esserci qualche “incidente” di tipo politico, come la vittoria di un partito della destra anti euro in un Paese dell’eurozona (es. Le Pen in Francia); oppure potrebbe esserci − ma qui ci vuole una notevole dose di ottimismo − la presa d’atto che non si può andare avanti e quindi una decisione consensuale di “sciogliere” l’unione monetaria. È però anche possibile che niente di tutto questo accada nel prossimo futuro, e che la situazione in cui siamo si protragga, magari per un altro decennio. Per quanto disfunzionale, l’euro potrebbe durare. Nel frattempo proseguirebbero la de-industrializzazione del Paese, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, l’arretramento del sistema di Welfare e l’attacco ai principi costituzionali. Il tempo purtroppo non è una variabile secondaria, e gioca − ahimè − a nostro sfavore.

Il secondo punto sull’euro è che dobbiamo distinguere tra un euro che funziona e un euro compatibile con politiche di sinistra. Dobbiamo cioè intenderci su cosa sia un «euro che funziona». Aggiustare l’euro, nel senso di evitare che possa implodere, è possibile con un certo grado di cooperazione e minime concessioni che evitino sia l’incidente sia le rivolte di popolo. Ma le condizioni che servono per farlo funzionare in modo compatibile con politiche di sinistra sono molto più stringenti e molto meno facili da ottenere, e rispetto a questo obiettivo i potenziali alleati sono molti meno di coloro che oggi invocano «più Europa».

Questo è un punto che credo dobbiamo sempre tenere presente. C’è un problema, su cui è giusto insistere, di sopravvivenza della moneta unica, ma potremmo arrivare a un assetto che consente sì alla moneta unica di sopravvivere, ma continua a precludere ogni spazio di azione a una forza di sinistra. Da una prospettiva europeista di sinistra, abbiamo sempre visto l’Europa come un’ancora, un appiglio nelle battaglie per l’estensione dei diritti civili e sociali (qui gioca la nostra prevalente autorappresentazione come Paese immaturo rispetto ai vicini più evoluti) − una garanzia di accesso per noi al modello sociale europeo. Ma in questo momento l’Europa si sta rivelando come una minaccia proprio rispetto alle conquiste cui l’abbiamo sempre associata, e questo è certamente un problema.

A corollario di quanto ho appena detto aggiungo che, stando nell’euro, l’approccio negoziale di Renzi con l’UE non è poi così irragionevole. Anzi, potremmo argomentare che è l’unico possibile. Renzi lo declina secondo la sua ideologia e quella dei consiglieri economici di cui si è circondato: da un lato cerca spazi fiscali attraverso un allentamento del vincolo di bilancio, ma dall’altro porta avanti il progetto di ristrutturazione liberista, sostanzialmente perché ci crede. Egli è il perfetto interprete della linea riforme in cambio di attenuazione dell’austerità, che è la linea della Commissione, della BCE e dei Paesi creditori. Ma anche se non ci credesse, le riforme richieste sono quelle. Nel quadro degli attuali rapporti di forza non so quanti spazi di manovra avrebbe un governo con un diverso orientamento. Non dimentichiamo passaggi come l’approvazione del pareggio di bilancio, precedenti l’arrivo di Renzi.

Il vincolo esterno rappresentato dall’impossibilità di controllare la moneta riduce ogni spazio di azione. Un’aperta forzatura dei vincoli europei sarebbe sanzionata in modo molto semplice. Non sarebbe necessario ricorrere a sanzioni esplicite o a minacce di espulsione, basterebbe allentare la protezione offerta dallo scudo della Banca centrale rispetto al nostro debito e ci ritroveremmo in una situazione paragonabile a quella della fine del 2011 (o della Grecia nel giugno-luglio 2015). Insomma: nell’euro si può certo fare qualcosa di diverso rispetto a quanto fa il governo Renzi, specialmente sul piano interno, ma non credo che un governo con un asse più a sinistra potrebbe fare cose sostanzialmente diverse, a meno di mettere più radicalmente in discussione il quadro dell’eurozona.

Veniamo alla seconda parte di questa mia introduzione, che riguarda le prospettive. Cerco anche di riallacciarmi a quello che ha detto il Professor Galli, che ha giustamente sviluppato l’analisi tenendo conto di una prospettiva non limitata alla dimensione economica. Del resto, prima la crisi ucraina e poi, soprattutto, quella siriana e il terrorismo riportano al centro la dimensione geostrategica, e questo sembra cambiare un po’ il campo di gioco rispetto a ragionamenti solo economici. Che l’aspetto geostrategico fosse rilevante anche per la questione dell’euro ce lo ha rivelato del resto ancora una volta la vicenda greca: la crisi di luglio ha messo in luce come gli Stati Uniti, pur considerando sbagliata la linea dura tedesca, non siano disposti a mettere in discussione l’euro. Pesa chiaramente la preoccupazione per la tenuta della Nato.

La prima questione su cui vorrei soffermarmi è quella della «taglia». Non trovo convincente la tesi, molto ricorrente, per la quale la sfida posta dal mondo globalizzato si possa affrontare solo avendo una taglia, una dimensione, adeguata. In termini economici sembrerebbe semmai più convincente la tesi contraria: la globalizzazione rende meno importante la cartina politica. Laddove − per dirla con Adam Smith − la divisione del lavoro è limitata dalla dimensione del mercato, e il mercato segue i confini nazionali, i processi di unificazione politica danno evidenti benefici economici. Questa logica è alla radice della creazione degli Stati nazionali, e lo stesso processo di integrazione europea è stato spiegato in questa maniera. Tuttavia, la globalizzazione rende questo processo di ampliamento della dimensione politica meno necessaria, perché abbiamo la mobilità anche senza unificazione politica. L’unità politica può essere vista come un processo che da un lato garantisce e facilita la mobilità interna (attraverso l’omogeneizzazione culturale, normativa, linguistica, ecc.), e dall’altro realizza un sistema di trasferimenti tra aree geografiche e classi sociali. Ma le due cose sono più sostituti che complementi (cioè: nel momento in cui tu hai più mobilità, hai anche meno necessità di trasferimenti). Ne segue che, sul piano economico, l’argomento classico per cui l’economia globalizzata richiede quale risposta un aumento della dimensione non è convincente; vi sono anzi buoni argomenti per sostenere il contrario.

Altrettanto poco convincente è l’idea che integrazione significhi maggiore capacità di governo dei processi economici. Qui mi limito a richiamare la lucida (e per certi versi scioccante) argomentazione di Hayek. In un saggio del 1938 l’economista austriaco sosteneva che la creazione di uno Stato federale avesse come effetto – nella sua visione desiderabile – quello di limitare la capacità di regolazione dello Stato, della politica, sul mercato. Lo Stato federale regola e ridistribuisce di meno, e infatti Hayek suggerisce che la prospettiva del federalismo inter-statuale è quella più coerente con il suo progetto liberista. Ma anche senza scomodare Hayek, il TTIP e il TPP ci offrono un esempio che dovrebbe farci dubitare del fatto che il governo sovranazionale rappresenti una tutela della nostra capacità di regolare il mercato.

Va detto che la dimensione geostrategica impone di riconsiderare almeno in parte quanto ho detto, perché sul piano militare le economie di scala sono innegabili. Dobbiamo interrogarci su quanto questa dimensione possa prendere il sopravvento su quella economica nel futuro prossimo. Indubbiamente in questo momento ha un peso, se non altro per l’onda emotiva scatenata dai fatti di Parigi, e non a caso la reazione immediata è stata quella di riaffermare l’unità europea di fronte alla minaccia esterna. La questione va senz’altro affrontata in queste nostre discussioni. Sentendo parlare di difesa comune, mi chiedo però se non rischiamo di fare della difesa comune una sorta di «nuovo euro», una costruzione messa in atto sulla spinta delle minacce reali o percepite, difficilmente reversibile, i cui costi emergono solo successivamente.

Il secondo nodo problematico riguarda i costi dell’integrazione. Se, come abbiamo detto, i benefici sono dati dalla possibilità di sfruttare la dimensione per fornire beni pubblici (la difesa è appunto uno di questi beni pubblici) a costo più basso, i costi derivano dal fatto che la fornitura di tali beni pubblici è tanto più difficile quanto maggiore è l’eterogeneità interna alla collettività che ne dovrebbe beneficiare. L’eterogeneità degli interessi a livello europeo è stata anch’essa evidenziata dalla crisi.

Andando all’osso, l’integrazione politica può essere descritta come la sostituzione di una logica contrattuale (e quindi un processo decisionale unanimistico) con una maggioritaria. Con l’integrazione, in ultima analisi, gli Stati rinunciano ad un diritto di veto per accettare un principio di maggioranza. Ma sappiamo che eliminare il diritto di veto è auspicabile quando siamo di fronte a un gioco a somma positiva: in quel caso il diritto di veto rischia infatti di rappresentare un ostacolo all’ottenimento dei vantaggi comuni, visto che chi può esercitarlo lo utilizzerà per ottenere vantaggi distributivi anche a scapito del raggiungimento di un accordo mutuamente vantaggioso. Se invece il gioco è a somma zero o se i benefici sono molto diversificati, abbandonare l’unanimità per la maggioranza non è una buona idea, perché il rischio è il prevalere di una maggioranza su una minoranza. L’aspetto distributivo tra maggioranza e minoranza diventa in questo caso prevalente, e quindi è possibile l’esproprio della maggioranza nei confronti della minoranza. A questo riguardo, dobbiamo chiederci se gli interessi di cui stiamo parlando siano meglio difesi rinunciando al diritto di veto. Pensiamo, ad esempio, al Medio Oriente o al Mediterraneo: c’è realmente coincidenza o vicinanza di interesse tra l’Italia, la Germania e i protagonisti di un’Europa unificata, oppure i rapporti mediterranei verrebbero sacrificati in nome di un interesse europeo superiore?

Terzo punto: il successo dell’integrazione si basa sulla previsione o l’auspicio che l’unità politica crei quell’omogeneità tra Paesi europei che al momento non c’è. L’omogeneità sarebbe cioè, almeno in parte, endogena rispetto all’unificazione politica. Da questo punto di vista l’analogia è tra la creazione degli Stati Uniti d’Europa e quella degli Stati nazionali, quando i localismi vennero superati in nome dell’unità nazionale. Il processo di integrazione politica ha dunque, in questo senso, le caratteristiche di un progetto analogo a quelli dei nazionalismi dell’età moderna, e come quelli richiede un’azione di omogeneizzazione istituzionale, culturale, e normativa, che in parte è già in atto attraverso l’attività delle istituzioni di Bruxelles. Ciò che non dobbiamo dimenticare è che questi processi hanno vincitori e vinti, e sono le minoranze e le periferie a pagare i costi più elevati. Non sono quasi mai, che io sappia, processi cooperativi, ma più spesso esiti di guerre di conquista, cui segue un’omogeneizzazione forzata di norme, di cultura, di lingua e così via. La capacità di seduzione del processo di integrazione europea è data anche dall’essere percepito come il primo caso nella storia di realizzazione di un progetto di nation building per via consensuale e realmente democratica.

Questa rappresentazione sottovaluta tuttavia le asimmetrie presenti tra i partecipanti. Asimmetrie non solo tra regioni e Paesi, ma anche tra classi sociali. È chiaro infatti che questo tipo di processi ha un costo diverso se si è parte dell’élite cosmopolita, se i tuoi figli hanno avuto opportunità di studio all’estero e quindi sono a proprio agio nello spazio europeo, oppure di attività più legate al contesto locale, che rischiano di essere travolte. Non vorrei che, in nome di questo progetto, la sinistra si trovasse a difendere l’interesse dell’élite cosmopolita trascurando quello di chi, confinato alla dimensione “provinciale”, è più vulnerabile. Non è un caso che siano proprio le classi popolari della “provincia” a rivolgersi alla destra nazionalista.

Quarto e ultimo punto: i rapporti di forza correnti. Per una prospettiva di integrazione il momento che stiamo vivendo è il peggiore possibile. Istituzionalizzare e quindi procedere verso l’integrazione delle istituzioni rischia di istituzionalizzare in primo luogo l’attuale asimmetria dei rapporti di forza. Niente ci assicura infatti che nella negoziazione da cui dovrebbe nascere la nuova Europa politica riusciremo a spostare gli equilibri rispetto alla situazione asimmetrica in cui ci hanno portato i primi dieci anni di euro e la successiva crisi. È 15verissimo quello che diceva la relazione precedente: la Germania non ha la possibilità di far avanzare una propria egemonia politica, che è prevalentemente economica, ma l’unione politica rischia di essere il veicolo per dare all’egemonia economica una valenza anche politica.

Ho voluto mettere in fila alcune risvolti del processo di integrazione politica che, nel dibattito, vengono troppo facilmente trascurati, con l’effetto di dare una rappresentazione irrealisticamente ottimistica della prospettiva del “più Europa”. Mi rendo conto che queste mie note critiche possono facilmente essere interpretate come nostalgia per lo Stato nazione di un’epoca ormai passata. Su questo punto, occorre aver chiaro però di cosa parliamo e cosa realmente è in gioco: gli Stati nazionali sono il luogo in cui è maturata la democrazia moderna come la conosciamo, e dove tale esercizio della democrazia è riuscito a trovare un modo per convivere con il capitalismo, imbrigliandone e temperandone gli esiti peggiori. Sono il luogo di elaborazione delle costituzioni, che qualcuno ha criticato perché eccessivamente influenzate da socialismo e antifascismo. Entro una visione di sinistra, la prospettiva di un abbandono di questo “luogo” dovrebbe come minimo porsi il problema se l’alternativa offra comparabili garanzie sulla possibilità di esercizio dei diritti democratici e sociali.

Come ha detto l’economista Dani Rodrik, la globalizzazione rende impossibile la coincidenza di sovranità e democrazia in capo allo Stato. Nemmeno nello schema di Rodrik, tuttavia, la globalizzazione è un processo naturale e ineluttabile. Alcuni degli aspetti più destabilizzanti della globalizzazione economica, come l’ipertrofia della finanza e la mobilità incontrollata dei capitali, sono l’effetto di precise scelte politiche; e non è così ovvio che quelle stesse tecnologie delle comunicazioni che sono considerate il principale motore dei processi di globalizzazione non possano essere utilizzate per restituire alla politica, e quindi alla democrazia, una capacità di controllo che limiti gli effetti più nocivi dei processi economici.

Chiaramente si tratta di inventare o di immaginare un diverso rapporto tra sovranità degli Stati ed esigenze di governo globale dei processi economici e geostrategici. Non credo che le uniche opzioni siano il «vecchio» nazionalismo degli Stati e il «nuovo» nazionalismo di un super-Stato europeo. Credo non si debba dare nulla per scontato a questo riguardo. Negli anni Novanta la sinistra, sia nelle sue espressioni più direttamente politiche sia in quelle intellettuali, ha perso di vista il quadro generale e ha sposato la tesi dell’ineluttabilità dei processi economici e sociali. Cerchiamo di fare in modo che non accada di nuovo.