Ci sono vari modi di leggere la situazione greca. Quello più diffuso adotta un approccio moralistico: è giusto che la Grecia paghi per la propria irresponsabilità fiscale; sarebbe viceversa ingiusto che dei problemi greci si facessero carico i cittadini degli Stati virtuosi e disciplinati.

Questa ricostruzione è attraente nella sua semplicità e ha certamente un fondo di verità, ma ha due difetti. Il primo è quello di applicare in modo discutibile categorie della morale individuale ad una collettività, che viene trattata come un tutt’uno, dimenticando che chi è chiamato a pagare ora e chi ha goduto dei vantaggi in precedenza potrebbero non essere gli stessi. Il secondo difetto di questa rappresentazione è che è semplicistica dal punto di vista economico, visto che trascura il ruolo che nella crisi attuale hanno giocato le carenze nella costruzione dell’euro, e sorvola sui vantaggi che da certi squilibri hanno tratto anche i Paesi virtuosi. Come ormai ampiamente riconosciuto, è l’assenza di meccanismi di correzione degli squilibri di competitività e dei conti con l’estero ad essere il principale fattore di rischio per la sopravvivenza a medio-lungo termine dell’euro.

Purtroppo, il difetto non è solo nelle rappresentazioni giornalistiche. Di fronte alla crisi greca la soluzione adottata si è ispirata all’ortodossia del cosiddetto Washington consensus, quell’insieme di precetti a lungo indiscussi, e purtroppo in molti casi fallimentari, che ha caratterizzato in anni passati l’azione del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Tagliare drasticamente la spesa pubblica, privatizzare, deregolamentare i mercati, eliminare quei meccanismi che possono rallentare il processo di aggiustamento verso il basso di prezzi e retribuzioni. Riforme strutturali da realizzare in cambio dell’assistenza finanziaria necessaria ad evitare il default. A sostegno di tale ricetta è stata propagandata l’idea che i tagli al bilancio pubblico avrebbero rapidamente ristabilito un clima di fiducia e attratto investimenti. Purtroppo non è quello che osserviamo: invece della “fatina della fiducia” (come la chiama il premio Nobel Paul Krugman) si sta materializzando una pesante recessione. Molto più realisticamente, c’è chi fa notare che la riduzione del reddito e dell’occupazione non sono un effetto collaterale bensì un passaggio necessario. L’idea è molto semplice in termini economici: la caduta dei consumi pubblici e privati riduce le importazioni; al tempo stesso, porta a minore reddito e crescente disoccupazione, che spinge i salari verso il basso, riducendo i costi e consentendo all’economia di ripartire, trainata dall’export. Prima si ingoia l’amara medicina, meglio è.

Della validità di questa ricetta sono ormai in molti a dubitare. Il fatto è che la stessa cura, in varia misura, viene richiesta contemporaneamente a tutti i Paesi in difficoltà (compreso il nostro). Eppure dovrebbe essere ovvio che una strategia che punta principalmente sulla deflazione e sul traino della domanda estera non può funzionare per tutti i Paesi contemporaneamente, ma può anzi contribuire a innescare una spirale recessiva globale. C’è di più: le ricette economiche spesso non fanno i conti con la variabile sociale e politica. I cittadini greci potrebbero raggiungere la conclusione che non ne vale la pena, che i costi sociali per restare nell’euro non valgono lo sforzo. E da un tracollo della Grecia forse ha ormai più da perdere l’Europa della Grecia stessa.

È qui che dovrebbe tornare in campo un cambio di strategia a livello europeo. Complessivamente l’Europa ce la può fare. Ha gli strumenti sia per fronteggiare l’emergenza (attraverso il fondo salva-stati e l’azione della Bce) che per rilanciare la crescita in modo meno traumatico, bilanciando con politiche espansive e di rilancio della domanda nei Paesi forti le politiche restrittive necessarie nei Paesi in difficoltà, e trovando canali di finanziamento degli investimenti cui i singoli stati non hanno accesso. Troppo spesso ci siamo abituati a considerare l’Europa come un vincolo esterno, l’ancora cui appigliarsi per giustificare scelte che non siamo stati in grado di prendere da soli. Dobbiamo invece cominciare a vedere l’Europa come il terreno delle scelte politiche, lo spazio per l’iniziativa.

L’alternativa è ormai sotto i nostri occhi, e nella Grecia si specchia la nostra apprensione. L’Italia non è la Grecia. I suoi “fondamentali” sono molto più solidi, la sua esposizione all’estero meno sbilanciata, i conti pubblici meno compromessi. Ma sappiamo che questo non ci mette al sicuro.