Il fatto che gli spread siano tutt’oggi a livelli analoghi a quelli dei giorni della caduta del governo Berlusconi non significa che tale passaggio politico non fosse necessario. Non sappiamo cosa sarebbe stato del nostro paese se a guidarlo fosse ancora un governo incapace di ogni iniziativa e ormai privo di credibilità.E tuttavia, il fatto che il costo di accesso ai mercati finanziari continui ad essere così alto, e che lo sia nonostante la pesante manovra fiscale e soprattutto nonostante le corpose iniezioni di liquidità nel sistema bancario attuate dalla Banca centrale europea, deve allarmarci. Ormai tutti i commentatori sembrano d’accordo su un punto, che a differenza di altri, non abbiamo mai sottovalutato: il problema che si manifesta nell’attacco ai debiti sovrani dei paesi più esposti è un problema europeo prima che nazionale. Gli investitori continuano a scommettere sulla mancata tenuta della costruzione dell’euro. Non vedono cioè prospettive positive nella strada imboccata, e non vedono segni chiari di un’inversione di rotta che faccia ripartire la crescita nell’eurozona.

Il passaggio dei prossimi giorni dovrebbe definire i termini del fiscal compact adottato dall’Unione. Le nuove regole prevederanno per i paesi fortemente indebitati un sentiero molto pesante di rientro. Non c’è bisogno di analisi e calcoli sofisticati per capire che l’effetto dell’adesione a tali regole sarà il protrarsi di restrizioni di finanza pubblica, con tutto quanto ne consegue, per molti anni ancora. È certo possibile vedere in questo anche un’occasione e un’opportunità per rinnovare modi e dimensioni del nostro sistema di protezione sociale e di spesa pubblica. I tagli possono essere in alcuni casi l’occasione per prosciugare fonti di spreco e aree di privilegio. Tuttavia, chiunque abbia consapevolezza delle condizioni in cui sta operando la nostra pubblica amministrazione (enti locali, ospedali, scuole, università) non può che vedere tale prospettiva con grande preoccupazione. Lo sviluppo richiede iniziativa privata e innovazione, ma anche sostegno nella fornitura di beni pubblici, ricerca, investimenti infrastrutturali, una modernizzazione degli apparati amministrativi, della giustizia, rinnovo del corpo insegnante. La stessa riconversione produttiva necessaria ad aumentare la produttività richiede risorse e costosi ammortizzatori.

Finora ci si è affidati all’idea che la disciplina di bilancio pubblico la fiducia sarebbe magicamente tornata, ma gli investitori sono rimasti a guardare (c’è chi usa il termine suggestivo di “sciopero degli investimenti”). L’altra leva su cui si fa affidamento è quella della deflazione: alla lunga, la caduta dei consumi e la disoccupazione, specie se nel contesto di un mercato del lavoro flessibile, dovrebbero spingere verso il basso salari e prezzi in modo da riattivare il canale esterno delle esportazioni. Anche questa soluzione è illusoria, oltre che pesantissima in termini sociali. In primo luogo perché la caduta dei salari deprimerebbe ulteriormente la domanda; in secondo luogo perché una ripresa trainata dall’esportazione si scontra con il perseguimento di surplus commerciali e politiche di austerità nei paesi più forti. Lo si è detto già, ma vale la pena di ripeterlo: uno sblocco della situazione si potrà avere solo con una decisa inversione di rotta nelle politiche europee, imboccando una strada diversa da quella che ispira i trattati in discussione. L’attuazione di politiche di riattivazione della domanda, il superamento del pregiudizio anti-inflazionistico nei paesi del blocco tedesco, la realizzazione di programmi di investimento europei (i cosiddetti project bond, per certi versi anche più importanti degli eurobond finalizzati a garantire collettivamente il debito). Riconoscendo la natura sistemica della crisi, occorre affrontare la situazione con politiche adeguate che coinvolgano tutti i paesi, centro e periferia.

Il governo fa bene a chiedere di allentare le maglie delle nuove regole fiscali europee al fine di mantenere uno spazio per gli investimenti e tenere conto del ciclo. Ma è il segno complessivo delle politiche ciò che dovrebbe cambiare. Monti dovrebbe mettere sul piatto tutta l’autorevolezza del suo governo, e rendere chiaro ai partner che, in assenza di una diversa prospettiva, sarà difficile evitare che, prima di quanto si creda, acquisiscano largo consenso posizioni marcatamente ostili all’Europa stessa. Il compito è molto difficile, specie finché nei maggiori paesi prevarranno governi conservatori convinti che la cura sia austerità e deflazione. Ma non c’è alternativa.