Sulla questione dell’articolo 18 sono stati spesi fiumi di inchiostro, sia sul merito economico che sul significato politico di una sua modifica. Ci sembra peraltro che le vicende degli ultimi giorni confermino che è il significato politico a prevalere.

Sul piano strettamente economico le cose sono in fondo abbastanza chiare. Che l’articolo 18 non impedisca il licenziamento lo dimostra tutto quello che è successo negli ultimi anni. Studi accurati hanno mostrato che esso non frena in modo significativo la crescita dimensionale delle imprese. Non convince nemmeno la tesi che la tutela ai lavoratori possa impedire la mobilità verso impieghi più produttivi, visto che niente trattiene un lavoratore dal rispondere all’offerta di un lavoro più attraente e meglio remunerato. L’ampio ricorso ai contratti a termine nelle imprese più piccole, quelle alle quali l’articolo 18 non si applica, mostra che non c’è alcuna relazione tra l’estensione del precariato e il livello di tutele. Dubito infine che vi siano economisti disposti a difendere, in un contesto accademico, la tesi secondo cui l’abrogazione dell’articolo 18 aumenterebbe l’incentivo ad assumere, visto che l’argomento è zoppicante sul piano teorico e indimostrato su quello empirico. Eppure continuiamo a leggere editoriali che ribadiscono la centralità di una riforma delle tutele dei lavoratori a tempo indeterminato, i cosiddetti «iper-garantiti». Per quanto si continui ad affermare il contrario dicendo che non deve essere né un totem né un tabù, la discussione sull’articolo 18 è una questione di carattere simbolico che ha implicazioni che vanno ben oltre i suoi effetti pratici.

Diciamola tutta: ciò che è in gioco è l’affermazione di un modello di rapporti industriali e sociali. Un atto di forza sul mercato del lavoro, e in particolare sull’articolo 18, potrebbe segnare, proprio per la sua carica simbolica, una svolta riguardo al ruolo delle parti sociali, la volontà di affermare una direzione di marcia, un modello di rapporti tra politica, società e individuo. Del resto, non è questo l’invito lanciato in modo insistente dalle pagine di alcuni dei maggiori quotidiani? Non è questo il messaggio che sta dietro l’idea che il governo tecnico abbia quale sua missione, proprio in virtù del suo essere slegato da esigenze di rappresentanza politica, l’affermazione dell’interesse superiore di cui è portatore rispetto agli interessi particolari di partiti, sindacati, categorie?

Ci auguriamo che il governo voglia sottrarsi a questo gioco. È chiaro infatti che si porrebbe un serio problema per il centrosinistra e il Partito democratico in particolare. Quanto sarebbe compatibile con le radici culturali del Pd avviare il nostro paese su un piano inclinato che avesse per esito il ridimensionamento delle rappresentanze sociali e di quei corpi intermedi che garantiscono il pluralismo sociale? È una questione che chiama in causa, si badi, la tradizione del pensiero sociale cattolico forse più ancora di quello socialista. E ancora: qual è il modello di società, quale il tipo di capitalismo, verso cui vuole puntare una forza progressista all’inizio di questo XXI secolo? Se c’è un effetto chiaro della crisi è che si è incrinata la fiducia nella superiorità del modello di capitalismo «liberale di mercato» di matrice anglosassone, mentre si stanno riscoprendo le virtù di forme di capitalismo «coordinato» con forti elementi cooperativi, in cui investimenti e competitività sono anche il frutto della concertazione e collaborazione tra impresa e lavoro. Sono scelte che certo non possono essere chieste a un governo tecnico o di tregua, retto da una maggioranza che esiste non in virtù di un comune progetto politico ma di una situazione di emergenza. Ma un chiarimento è necessario.

Se dovessimo accorgerci un giorno che la riforma dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali non era che un altro nome per il ridimensionamento del ruolo delle rappresentanze sociali, la conclusione potrebbe essere che non c’era bisogno di chiamare in servizio la bravissima professoressa Fornero. Poteva bastare il ministro Sacconi.