Quanto l’aumento degli spread risente di ogni singola vicenda di politica interna, sia essa una critica delle parti sociali al governo o l’emendamento ad una riforma, e quanto delle più ampie prospettive di crescita del continente europeo? Qualcuno ha notato come i mercati siano spesso descritti alla stregua di antiche divinità dal carattere vendicativo. Forze rabbiose capaci di scatti improvvisi di ira distruttiva: una rappresentazione che torna utile a chi, nel ruolo di sacerdote, si fa interprete della richiesta di sacrifici e offerte.

È chiaro che servono le riforme e il rispetto degli obiettivi di bilancio, ma forse sarebbe il caso di dirci, almeno tra chi pratica una visione non mitica dell’economia, che questi sono gli obiettivi che l’Europa si è volontariamente dati; se i mercati guardano a riforme e saldi di bilancio è perché dal rispetto di quegli obiettivi dipendono l’azione della Banca centrale e il benestare tedesco ad azioni più risolutive. Ciò cui gli investitori sono interessati è capire quanto sia realmente determinata l’Europa a salvare la moneta unica, mentre è chiaro a tutti, anche perché ormai economisti di ogni orientamento lo ripetono con salmodiante insistenza, che il fiscal compact ha di per sé un effetto recessivo.

Purtroppo, dopo qualche mese di tregua, stiamo rapidamente tornando al punto di partenza. Nei giorni scorsi si è ripreso a parlare di un possibile intervento diretto della Bce a sostegno dei debiti sovrani, e con queste voci è riemerso l’eco di dissensi all’interno dell’istituzione di Francoforte sulla linea da seguire, con i falchi tedeschi contrari ad ogni cedimento. L’intervento della Bce a fine 2011, l’enorme iniezione di liquidità che ha sostenuto il sistema bancario, ha funzionato per un po’, portando gli spread a livelli di sicurezza. Si sapeva che tale intervento, il massimo che Draghi poteva fare senza violare apertamente i trattati e senza irritare troppo i tedeschi, non poteva durare. Si sapeva che stavamo solo comprando un po’ di tempo. Per avviare la crescita, così si è detto. E la ricetta era quella delle «riforme strutturali»: liberalizzazioni dei mercati dei prodotti e soprattutto del mercato del lavoro, che consentissero ai Paesi in crisi di recuperare competitività tagliando i costi. Una linea dagli effetti illusori ed estremamente costosa sul piano sociale e politico, specie nel breve periodo. Del resto, almeno muovendoci entro i vincoli dati, gli unici interventi di «riforma» consentiti rischiano di essere un progressivo smantellamento del sistema di welfare e dei servizi pubblici (specie quelli locali), o la svendita delle imprese pubbliche a qualche investitore d’Oltralpe. Non certo quello che servirebbe per modernizzare il Paese e la sua economia. Penso alla necessaria ristrutturazione della burocrazia pubblica (che è cosa diversa dai tagli di spesa), all’urgenza di un sistema universale di ammortizzatori sociali (non realizzabile se tutte le risorse sono assorbite dall’obiettivo di rapido consolidamento fiscale), agli investimenti in formazione ricerca, ad una politica industriale che si ponga il problema della collocazione del paese in termini di specializzazione produttiva.

Si tratta di riforme che richiederebbero risorse, e quindi un allentamento della linea di austerità. È ben nota l’obiezione: senza una sufficiente pressione sui Paesi in crisi, senza la minaccia di una nuova impennata del costo del credito, non si troverà mai il consenso per le riforme necessarie. Il termine tecnico è moral hazard. Una linea rischiosa, che mantiene l’eurozona e i paesi sotto tiro su un crinale sottile, sempre in bilico. Possiamo permetterci di andare avanti così? In questo contesto non sarebbero auspicabili una maggiore solidarietà e qualche iniziativa congiunta tra i Paesi più esposti? Nei giorni scorsi c’è stato qualche attrito, tra Spagna e Italia, riguardo a chi, facendo male i proprio compiti, abbia determinato la nuova impennata degli spread. Una gara a non risultare i peggiori della classe. Una gara che ricorda troppo da vicino la storia dei capponi di Renzo nei Promessi Sposi, quelli che si beccavano tra loro in attesa di essere cucinati.