Il pareggio di bilancio in Costituzione è un cedimento della politica. Così si costituzionalizza il principio che i mercati sono perfetti.

Riguardo alla modifica costituzionale che ha introdotto il vincolo di pareggio di bilancio – l’iter si è concluso nei giorni scorsi – ciò che forse più ha sorpreso è l’assenza di un dibattito adeguato alla rilevanza del tema. Qualcuno ha attribuito tale silenzio all’imbarazzo di una parte della classe politica, consapevole dell’inesistenza di valide argomentazioni economiche che giustificassero la decisione di immortalare la rozzezza e l’incongruenza di una tale proposta dal sapore ottocentesco nella nostra legge fondamentale; una decisione su cui certo hanno pesato le pressioni delle istituzioni europee e dei mercati finanziari, ma contro la quale si erano espressi, una volta tanto in modo trasversale rispetto alle diverse posizioni, un gran numero di economisti.

Le principali obiezioni alla riforma sono note. Sebbene il testo approvato abbia salvaguardato la possibilità per il governo di realizzare politiche fiscali anticicliche e abbia concesso la possibilità di derogare al vincolo del pareggio in condizioni eccezionali, resta difficile da capire quali saranno le conseguenze pratiche. L’individuazione degli effetti del ciclo economico e delle recessioni che giustificano le deroghe resta una operazione assai arbitraria, su cui gli economisti non hanno raggiunto una posizione condivisa. La soluzione di delegare la definizione di questi aspetti a un organo tecnico autonomo finisce così per riflettere un’ingenua e mal riposta fiducia nella possibilità di separare l’inaffidabilità della politica dall’oggettività della tecnica.

Ma anche volendo tralasciare le prevedibili difficoltà di applicazione, che hanno alimentato in alcuni osservatori la convinzione che la portata pratica della norma sarà alla fine assai limitata, l’aspetto più discutibile è il messaggio sottostante, la filosofia ispiratrice. Di fatto, l’imposizione del pareggio di bilancio ha costituzionalizzato il principio che i mercati sono perfetti, fatto salvo per temporanei e occasionali scostamenti. L’idea che il bilancio pubblico debba essere in pareggio presuppone la convinzione che esista una spontanea tendenza del settore privato a mantenere l’economia su un sentiero di pieno utilizzo della capacità produttiva. È infatti l’accettazione che i mercati possano essere imperfetti che ha storicamente giustificato la possibilità di rimediare anche generando disavanzi di bilancio.

Basti pensare al ruolo fondamentale svolto dall’investimento pubblico nello sviluppo economico. Come riconosceva anche Adam Smith, il padre del liberalismo economico, le spese infrastrutturali spettano allo Stato proprio perché i mercati non trovano conveniente sostenerle. La costruzione di strade, ferrovie, il finanziamento della ricerca scientifica, lo sviluppo delle infrastrutture immateriali, ma anche in parte la spesa per l’istruzione, sono investimenti pubblici che si ripagheranno con aumenti del reddito futuro e che quindi è del tutto ragionevole (sia equo che efficiente) trasferire ai contribuenti futuri tramite il ricorso all’indebitamento. Negare questo elemento significa mettere la spesa per investimenti in competizione con quella corrente per il welfare o la sanità e, di conseguenza, sacrificare la prima alla seconda, come è puntualmente accaduto anche nel recente passato. È davvero paradossale che si arrivi a giustificare la riforma costituzionale appena approvata invocando il benessere delle generazioni future, cioè coloro che dei mancati investimenti di oggi pagheranno il costo.

Resta un ultimo argomento: l’Europa. Secondo alcuni il pareggio sarebbe la condizione per ottenere una maggiore integrazione fiscale e la creazione di un bilancio federale capace – quello sì – di finanziare gli investimenti richiesti. Diverse considerazioni sarebbero possibili a questo riguardo, ma ne basta forse una su tutte: le due cose – il bilancio europeo e il vincolo nazionale – avrebbero dovuto essere contestuali, sancite da un qualche accordo, e non affidate alla benevolenza dei nostri partner europei. Senza contropartita il pareggio di bilancio, se preso sul serio, rischia di diventare per i prossimi anni quello che furono i criteri di Maastricht per gli anni Novanta: un vincolo che si fa obiettivo, l’unico obiettivo della politica economica, con buona pace della trasformazione e della crescita della nostra economia.