Pochi giorni fa sul forum on-line di un giornale americano un lettore commentava i fatti europei chiedendosi se anche questa volta toccherà all’America salvare l’Europa da se stessa. Una provocazione che ci piacerebbe respingere con ironia, augurando ai nostri cugini di trovare presto una soluzione ai loro problemi, se non fosse per il contrasto tra il lucido pragmatismo di Obama e la spaesata compulsività che caratterizza le ultime prese di posizione dei leader europei. Il presidente ha rimproverato l’Europa di non aver seguito la lezione americana, fatta di massiccio ricorso alla spesa pubblica per compensare la caduta di domanda privata e di generose iniezioni di liquidità da parte della banca centrale. Un’accusa prontamente respinta al mittente dal commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn, nella cui visione delle cose non sono contemplate eccezioni al perseguimento convinto della strategia di austerità.

Le affermazioni di Obama non hanno turbato nemmeno il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble e il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso che, senza il minimo accenno di autocritica, parlando della Grecia, pongono l’aut aut tra il necessario rispetto dei patti e l’uscita del Paese dall’euro e dall’Unione europea. Che i patti vadano rispettati è affermazione in generale ineccepibile, ma fa sorridere se ripensiamo alla reazione che suscitò il mero annuncio di voler sottoporre l’accordo a referendum da parte dell’allora primo ministro Papandreu.

Commissione e governo tedesco cercano di esorcizzare il fatto che i greci, alla prima occasione di esprimersi, hanno detto chiaramente che non ritengono accettabili le condizioni loro imposte dall’Unione europea. I partiti che sostenevano la linea dell’austerità sono passati dal 77% al 32% dei consensi: una bocciatura senza appello che nemmeno una legge elettorale fortemente distorta in senso maggioritario ha consentito di nascondere. Già, perché la linea dell’austerità, quella della riduzione delle retribuzioni e dei licenziamenti di massa nel settore pubblico, dell’abolizione dei minimi salariali, delle privatizzazioni su larga scala, non solo non ha funzionato sul piano strettamente economico, ma ha suscitato la prevedibile reazione dell’elettorato. Le ricette confezionate a Bruxelles o a Francoforte o a Berlino hanno, tra gli altri, il difetto di non tenere conto della variabile sociale e di quella politica. È sempre possibile tacciare gli elettori di immaturità e dipingere i due terzi dell’elettorato greco come antisistema (o magari prendersela con la legge elettorale!). Il voto contro l’accordo, tutt’altro che irrazionale, nasce dalla consapevolezza che certe minacce non sono credibili per un Paese la cui unica forza è diventata l’estrema debolezza, il non aver nulla da perdere. Ingenuo e poco avveduto è chi non ha previsto un esito tanto ovvio, pensando che accordi intergovernativi più o meno imposti e vincoli finanziari potessero indefinitamente prevalere su ogni altra considerazione.

Nell’antichità era previsto il diritto di vita e di morte del creditore sul debitore insolvente, poi si è passati alla prigione per debiti, infine la stessa evoluzione del capitalismo ha portato ad accettare che quando si presta del denaro il rischio è sempre ripartito tra le due parti (se così non fosse, il 90% degli strumenti finanziari non avrebbe ragion d’essere). Sarebbe ora che l’Europa, anche la parte che si considera virtuosa, ammettesse la corresponsabilità del creditore per l’esplosione dei debiti nei Paesi periferici, accettasse che anche la formica ha tratto profitto dall’atteggiamento della cicala, che la crisi in cui siamo è l’effetto di un disegno poco accorto delle istituzioni europee e che uscirne è responsabilità collettiva. Un tale risveglio alla realtà sarebbe segno finalmente di realismo e lungimiranza.

C’è molta attesa per le prime mosse da Parigi. La speranza è la nascita di un nuovo asse in seno all’Europa, che potrebbe contare sulla sponda di Washington, e per il quale lo stallo politico di Atene rappresenta un argomento di grande forza persuasiva. Ci aspetteremmo che il governo italiano, che ha molti meriti nella riconquistata reputazione del Paese, mettesse tutto il proprio peso a sostegno di tale mutamento di rotta. Roma è grosso modo a metà strada tra Parigi ed Atene, non solo dal punto di vista geografico.