A chi per uscire dalla crisi ripropone la vecchia tesi liberista per cui la via della crescita passa per un ridimensionamento del ruolo del pubblico, le forze progressiste hanno il dovere di opporsi. La risposta rischia tuttavia di essere debole se si limita ad una difesa dell’esistente. La sfida di ripensare modi e confini del pubblico, e di farlo entro un quadro non subalterno alla visione a lungo dominante, può e deve essere raccolta. Senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento, ecco alcuni criteri che credo possano caratterizzare un approccio progressista al tema.

In primo luogo, occorre abbandonare l’idea che il pubblico sia un ostacolo allo sviluppo di un’economia di mercato. Se storicamente l’estensione del ruolo del pubblico è andata di pari passo con la crescita economica è perché, al contrario, il primo è stato un ingrediente essenziale del secondo. L’istruzione pubblica ha garantito l’accesso universale a codici di comunicazione condivisi, necessari allo sviluppo capitalistico, la sanità pubblica ha innalzato il livello di salute della popolazione a costi più bassi delle alternative private, l’estendersi dei sistemi di welfare ha consentito l’assorbimento collettivo di rischi che altrimenti avrebbero compromesso lo stesso funzionamento del mercato. Non solo: in alcuni Paesi (tra cui il nostro) lo stato imprenditore ha svolto un ruolo essenziale come volano di sviluppo industriale, e anche nell’esperienza più recente di Paesi dalle tradizioni liberali più marcate sono pubblici gli investimenti che hanno consentito alcune delle principali innovazioni tecnologiche. L’idea che il rilancio dell’economia coincida con l’arretramento della responsabilità pubblica, tanto popolare nell’ultimo ventennio, non trova riscontro fattuale, visto che molti dei Paesi che godono delle più elevate condizioni di benessere e crescita sono paesi ad alta spesa pubblica.

Secondo, bisognerebbe evitare di parlare del pubblico in generale. La raccolta dei rifiuti, la manutenzione delle strade, la sanità e l’istruzione non sono la stessa cosa. Diverse sono le motivazioni per il coinvolgimento del pubblico, diverse quindi le risposte e le modalità con cui il pubblico può esercitare la propria responsabilità nei confronti dei cittadini. Anche a questo riguardo, pensare in termini di contrapposizione è fuorviante: la responsabilità pubblica non coincide con la gestione pubblica diretta, ma può limitarsi in molti casi al ruolo di regolazione, avvalendosi dell’iniziativa e delle competenze degli operatori privati. E, d’altra parte, il ricorso al privato non va inteso come una scorciatoia per affrontare i problemi di cattivo funzionamento del pubblico: un pubblico che funziona male sarà un cattivo gestore, ma risulterà un altrettanto cattivo regolatore, incapace di contenere gli interessi di un gestore privato. è un governo forte e autorevole quello che può permettersi un rapporto proficuo con il privato, orientandone l’iniziativa al perseguimento dell’interesse dei cittadini.

Terzo, occorre evitare di ridurre l’economia a bilancio. La nozione di efficienza economica è ben più ampia di quella contabile di contenimento del bilancio pubblico. Dimenticandosi di questa differenza, si sono spesso ottenuti risparmi di spesa pubblica al prezzo di uno scadimento nella qualità o aumenti del costo sopportato dall’utenza, come se tali effetti non fossero rilevanti ai fini di un corretto calcolo di costi e benefici. Se taglio una linea di autobus e aumento l’uso del mezzo privato, la collettività non ha fatto un buon affare, anche se paga qualche euro di imposte in meno.

Infine, occorre superare l’idea che parlando di pubblico la questione dei diritti riguardi primariamente il lavoro pubblico e non invece l’utenza, i cittadini in quanto fruitori di servizi. Mi rendo conto che questo è un punto difficile, anche per una parte della sinistra. Ma senza partire dalla funzione svolta, dal servizio fornito, c’è il rischio che ogni battaglia sia intesa come difesa dell’occupazione pubblica invece che difesa di beni e servizi forniti a vantaggio di tutti. In special modo di chi non avrebbe possibilità di provvedere alle proprie necessità acquistando quei beni sul mercato, cioè coloro che, in ultima analisi, finiscono per pagare in misura maggiore sia il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione che un suo ridimensionamento senza criterio.