Un vertice europeo presentato come decisivo e celebrato come un grande successo politico per l’Italia viene metabolizzato nel giro di pochi giorni, tradendo rapidamente le speranze suscitate. Un’importante agenzia di rating declassa il nostro debito, pur in presenza di evidenti sforzi di risanamento. Il voto del 2013 viene presentato come fonte di incertezza per gli investitori, e suscita negli schieramenti un dibattito sul necessario grado di continuità o discontinuità con l’attuale governo. Già, il governo Monti: sta facendo bene? Non sta facendo abbastanza? O magari sta facendo bene ciò che poteva, ma ci vuole altro?

Di fronte ad un comprensibile senso di spaesamento, è utile ripartire dalla lettura prevalente, ancorché in buona parte fuorviante, dell’attuale crisi europea. Vi sono Paesi che hanno speso troppo, al di sopra dei propri mezzi, accumulando debiti privati e pubblici (spesso debiti privati che sono diventati pubblici per evitare guai peggiori), nonché aliVmentando deficit commerciali. Occorre dunque riportarli a comportamenti più virtuosi: ridurre la spesa pubblica (nonché quella privata, attraverso politiche di deflazione salariale), liberalizzare i mercati e avviare ampi processi di privatizzazione per ristabilire fiducia degli investitori. Gli evidenti fallimenti di tale strategia hanno portato negli ultimi mesi ad accettare che occorrano azioni più decisive per rassicurare i mercati ed evitare un tracollo del sistema creditizio. Si è insomma progressivamente abbandonata l’idea che l’austerità da sola bastasse, e il nuovo consenso sembra voler combinare austerità e misure di emergenza. Ha fatto infine breccia l’idea che nel lungo periodo all’unione monetaria debba affiancarsi un’unione fiscale e quindi politica, anche se il contenuto di queste formule non è sempre ovvio.

Un tale ammorbidimento, più professato che praticato, non basta a concludere che vi sia ormai consenso sul da farsi. Credo che resti urgente affermare la specificità di una visione progressista per lo meno su due questioni. La prima è l’urgenza di allentare la stretta delle politiche di austerità. Innanzitutto per ragioni legate all’emergenza, visto che le misure ipotizzate nel recente vertice non sarebbero sufficienti a compensare il pessimismo indotto dagli effetti pesanti dell’austerità su produzione e occupazione. Ma anche in un’ottica di lungo periodo: la sofferenza del sistema produttivo rischia di provocare fenomeni di desertificazione industriale e la perdita irreversibile di quote di mercato, anche da parte di imprese efficienti che hanno però difficoltà di accesso al credito; la carenza di risorse destinate al sistema formativo, responsabile della produzione e riproduzione delle competenze, avrà effetti di lunga durata; non si capisce infine come la riduzione dei bilanci pubblici possa consentire il superamento di limiti “strutturali” del nostro Paese, ad esempio riguardo all’illegalità.

La seconda questione su cui occorrerebbe marcare una propria specificità “progressista” è quella europea. Occorre insistere nel proporre una lettura diversa della crisi, che evidenzi i limiti dell’architettura della moneta unica e ne proponga quindi una revisione coraggiosa, non limitata al minimo necessario a superare l’emergenza. Il problema è più impegnativo di come possa apparire a prima vista, visto che la crisi può essere letta come manifestazione delle difficoltà di far convivere sovranità nazionale, democrazia e integrazione economica, quest’ultima declinata in particolare come integrazione dei mercati dei capitali. Si tratta di individuare l’uscita dal ciclo dello scorso trentennio, che ha subordinato l’economia reale alle esigenze dell’integrazione finanziaria e ha relegato la politica in posizione subalterna. Si capisce come un’azione di questo tipo dovrebbe mostrare grande indipendenza anche dai giudizi, spesso estemporanei, dei mercati finanziari. Un compito formidabile, ma rispetto al quale l’Italia, vantando una consapevolezza che le deriva dal soffrire nella propria carne gli effetti della crisi, potrebbe giocare un ruolo decisivo. Un compito che richiede una visione precisa del problema e delle possibili soluzioni. Continuità o no, siamo ben oltre ciò che il miglior governo tecnico o “di tregua” sarebbe in grado di garantire.