Dalle persone alle cose, diceva Giulio Tremonti. Dalla imposizione sul reddito a quella sui consumi. È un tema ricorrente nelle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali e nel dibattito tra gli addetti ai lavori. La ricetta peraltro è stata applicata in anni recenti da molti Paesi europei, che dovendo aumentare la pressione fiscale hanno preferito farlo intervenendo sull’Iva e in alcuni casi hanno accompagnato tale misura ad un taglio sull’imposta sul reddito o sulla contribuzione. Ora tocca all’Italia, che si appresta ad accompagnare un aumento dell’1% delle aliquote Iva (quella al 10% e quella al 21%) con una riduzione, sempre dell’1%, dell’aliquota Irpef sui primi due scaglioni, cioè sulla quota di reddito inferiore ai 28 mila euro.

Qual è la logica di un intervento del genere? L’idea è di tassare maggiormente i consumi (con l’Iva) per finanziare un alleggerimento del cuneo fiscale sul lavoro e incoraggiare così l’occupazione. Già, ma se il reddito deve essere comunque speso in beni e servizi gravati dall’Iva, il risultato per il contribuente non è alla fine una partita di giro? Sì e no. Innanzi tutto il consumo è una base imponibile più ampia del lavoro, perché parte dei consumi presenti e futuri sono finanziati utilizzando redditi non assoggettati a Irpef (i redditi di capitale) e la ricchezza accumulata fino ad oggi; quindi un aumento dell’Iva equivale ad un’una tantum sulla ricchezza, il che potrebbe anche essere opportuno. Va poi considerato che, mentre le imposte sul reddito finiscono per incidere indirettamente sui costi dei beni prodotti nel nostro Paese, e quindi hanno un effetto peggiorativo sulla nostra competitività, l’Iva è pagata allo stesso modo dai beni prodotti in Italia e da quelli importati. Spostare le imposte dal reddito al consumo ha dunque effetti simili a quelli di una svalutazione (si parla infatti di svalutazione fiscale).

L’obiezione riguarda semmai il tema dell’equità. Il consumo è una percentuale decrescente del reddito (individui a reddito più elevato risparmiano una quota maggiore di reddito) e quindi, si dice, la tassazione dei consumi ha un effetto regressivo. In verità si può obiettare che anche il risparmio prima o poi dovrà essere speso in beni di consumo e dunque, a meno di future riduzioni, su un orizzonte lungo l’imposta sul consumo equivale ad un’imposta proporzionale sul reddito. Ma l’effetto redistributivo è ben più complesso di così: ha una dimensione generazionale (in proporzione al reddito gli anziani consumano più dei giovani), dipende dalle aliquote Iva interessate dall’aumento (i beni ad aliquota agevolata sono consumati in proporzione maggiore dagli individui meno abbienti) e soprattutto dipende da come viene specificamente realizzata la riduzione dell’imposta sul reddito. In questi casi tutto sta nei dettagli; dovremo quindi attendere il testo del provvedimento prima di tracciare un bilancio certo. Ciò che sappiamo è che la riduzione riguarderà l’aliquota dei primi due scaglioni Irpef. Questo significa che l’aumento del reddito disponibile interesserà soltanto la quota di reddito al di sotto dei 28mila euro. Significa anche che la perdita di potere d’acquisto per l’aumento dell’Iva non sarà in alcun modo compensata per i contribuenti il cui reddito rientra nella no tax area, che non pagano l’Irpef e quindi nemmeno traggono beneficio da una sua riduzione. Non è chiaro se vi sarà anche un ritocco della detrazione per categorie di reddito, che potrebbe modificare in modo significativo gli effetti in termini di progressività o regressività dell’intervento. Inoltre, dettaglio rilevante, la riduzione delle aliquote Irpef viene compensata in parte da un taglio a deduzioni e detrazioni; vale a dire che sarà ridotto il sostegno fiscale a varie categorie di spesa (ad esempio, le tasse universitarie, quelle per asili nido, per attività sportive dei figli, ecc.).

Ma c’è un’ultima importante osservazione da fare: la riduzione delle aliquote Irpef e la minor riduzione dell’Iva (le aliquote Iva cresceranno di un punto percentuale contro i due previsti inizialmente) vengono finanziate con tagli alla spesa. Sappiamo che il grosso dello sforzo di riduzione della spesa della cosiddettaspending review è stato scaricato su Regioni ed enti locali. Ciò significa che, di quei 200-300 euro annui in più che le famiglie si troveranno in busta paga, ammesso che resti qualcosa una volta tenuto conto dell’aumento dei prezzi dovuto all’incremento dell’Iva e delle minori detrazioni di cui si è detto, servirà a finanziare qualche prestazione sanitaria o qualche farmaco non più coperti integralmente, l’aumento della quota della mensa scolastica a carico delle famiglie, un ulteriore aumento del biglietto dell’autobus. Certo, nella linea di austerità che abbiamo imboccato è sempre possibile argomentare che poteva andare peggio. È vero, l’equità è sempre una questione relativa, eppure resta la consapevolezza che realizzarla tagliando i servizi sia un po’ come tentare la quadratura del cerchio con riga e compasso.