Può il polo di centro rappresentare effettivamente un punto di riferimento per i cattolici italiani? Prendiamo il tema alla larga: c’era una volta il conflitto capitale-lavoro. Per la precisione, c’era una volta una lettura dei processi sociali in termini di conflitto tra interessi legati al modo di produzione e alla posizione dei soggetti sociali rispetto al controllo dei relativi mezzi. Su questa rappresentazione si sviluppò l’offensiva socialista, conquistando ampie masse di lavoratori alla lotta di classe. La risposta dei cattolici, già a fine Ottocento, fu un energico impegno sul piano sociale e sindacale prima che politico. Alla visione conflittuale il pensiero cattolico opponeva una visione interclassista, che non rifiutava l’idea di una divergenza di interessi ma ne vedeva la soluzione in una composizione, realizzata a livello politico anche mediante la spesa sociale.

Non c’è dubbio che l’evoluzione sul piano politico e sociale del XX secolo abbia progressivamente attenuato, anche nell’ambito della sinistra di ispirazione socialista, l’enfasi sulla dimensione conflittuale. Nel disorientamento culturale e ideologico della sinistra post-1989, il processo si è spinto peraltro molto oltre: non solo si è negata rilevanza al conflitto capitale-lavoro nella comprensione delle dinamiche sociali, ma si è messa in discussione la stessa centralità del lavoro. Del resto, si è detto, esiste ancora il lavoro nell’economia post-fordista? Il lavoro è frammentato, articolato. Il suo rapporto con il capitale è meno definito, e il conflitto di interessi tra lavoratori e capitalisti è una delle tante dimensioni di divergenza di interessi cui ci pone di fronte un’economia di mercato. L’individuo, si è sostenuto, non è solo lavoratore, è anche consumatore. E il capitale in un’economia globalizzata va attratto, non combattuto. Semmai, dobbiamo distinguere tra il capitale inserito in un contesto concorrenziale, quello che genera innovazione, e quello speculativo, finanziario, che si alimenta di posizioni di rendita.

E ancora: se il lavoro è uno dei tanti beni, se il mercato del lavoro è un mercato come gli altri (e non quella «istituzione sociale» di cui ci parla il padre della teoria economica della crescita Bob Solow) allora come leggere il ruolo di regolazione e protezione dei sindacati? Il conflitto è tra lavoratori protetti e non protetti, tra privilegiati e meno privilegiati, giovani e anziani. Non si difende l’ideale di uguaglianza prendendo le difese del lavoro ma eliminando posizioni di rendita, lacci e lacciuoli, facendo funzionare il mercato.

Se questo è grosso modo il punto di arrivo, e se il punto di arrivo è un inceppamento del meccanismo di crescita, società caratterizzate da diseguaglianze crescenti e crescente incertezza, non è così peregrino chiederci quando abbiamo smarrito la via. Non certo per vagheggiare impossibili ritorni alle origini, ma per capire quanto meno in quale passaggio, a forza di revisioni, abbiamo finito con il gettare il bambino con l’acqua sporca. Ad esempio: una cosa è relativizzare l’idea conflittuale tra capitale e lavoro, un’altra è rinunciare ad affermare la centralità del lavoro, o a considerare l’elevazione della sua qualità come chiave di valutazione del progresso economico. Rimettere al centro il lavoro è poi un’operazione opportuna sul piano politico: è il punto di caduta della migliore tradizione socialista “lavorista” e del pensiero sociale cattolico. «Il lavoro» afferma l’enciclica Laborem exercens «per il suo carattere soggettivo e personale è superiore a ogni altro fattore di produzione». La Costituzione dell’unica Repubblica “fondata sul lavoro” ribadisce il punto.

I moderati italiani stanno organizzandosi. Quale che sia la posizione che vorrà assumere il presidente Monti, c’è da augurarsi che tale tentativo abbia successo: aiuterebbe un’evoluzione positiva della politica del nostro Paese, dove la destra è sempre stata populista ed estremista. Non vorremmo però che qualcuno si illudesse. Le foto di gruppo del nascente polo di centro hanno finora inquadrato manager e imprenditori miliardari, restituendoci un vago sapore di partito di classe. Se è così, non sarà sufficiente la spolverata di solidarismo che può venire da qualche esponente dell’associazionismo cattolico, né velate benedizioni di questa o quella curia o il placet del Partito popolare europeo, a contendere al Partito democratico il voto dei lavoratori cattolici e l’eredità della tradizione popolare.