La recente soluzione del nodo del Presidente della Repubblica e di quello della formula di governo lasciano di fronte a noi intatti problemi e urgenze. Al di là della disputa sui nomi, non va dimenticato che, dietro alle manifestazioni di rabbia insofferenza e rifiuto cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, ci sono sofferenze individuali, difficoltà, domande disattese, cui la politica non ha potuto o saputo rispondere. È da qui che il governo dovrà ripartire.

Il prolungarsi della crisi, ormai nel suo quinto anno avanzato, erode progressivamente la nostra base produttiva, cancella posti di lavoro, riduce le risorse disponibili. Le previsioni sono sistematicamente aggiornate al ribasso, e i segni di ripresa stentano a manifestarsi. La risposta messa in campo dall’Europa si è ispirata finora a una strategia di austerità sul piano fiscale e di deflazione; la tesi era che la caduta di salari e prezzi determinata dalla disoccupazione e dal taglio del welfare avrebbe rilanciato le esportazioni e alimentato la ripresa. Non è quello che si è verificato, e le certezze coltivate in alcune cancellerie europee, nella Bce, nella Commissione, sono ormai messe apertamente in discussione. Ciò apre qualche opportunità e richiede chiarezza di intenti, sia sul versante europeo che su quello interno.

In Europa occorrerà sfruttare per intero i margini di flessibilità consentiti dalla nuova costituzione fiscale dell’Unione e spingere con decisione verso quei passaggi necessari per mettere definitivamente in sicurezza l’euro e consentire un cambiamento di segno delle politiche fiscali e monetarie. Serve autorevolezza, che è cosa diversa dal plauso concesso a chi si adegua docilmente, ma richiede al contrario capacità di affrontare le possibili divergenze di interessi tra i Paesi partner.

Sul versante interno, c’è il tema delle politiche di crescita, che passano nell’immediato per un rilancio della domanda ma non possono certo esaurirsi in politiche demand side. Liberato il campo all’idea che politiche strutturali sia sinonimo di ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, occorre accompagnare quel riposizionamento produttivo che il nostro paese non può più rimandare. Su questo versante la politica economica non può limitarsi a operare solo sulle «condizioni di contorno» come vorrebbe un certo liberismo di seconda mano. L’efficienza della pubblica amministrazione, della giustizia civile, e così via sono condizioni necessarie ma ormai non sufficienti. Vi sono interventi urgenti su cui il governo non può limitarsi al ruolo di spettatore: ripristinare l’accesso al credito per le imprese, specie quelle medie e piccole; prevedere nuove forme di sostegno agli investimenti innovativi, anche mettendo in campo le ingenti risorse della Cassa depositi e prestiti; incoraggiare gli investimenti in capitale umano sia attraverso le regole che attraverso il sistema formativo, fino a prevedere veri e propri piani per l’inserimento nel sistema produttivo di giovani a elevata specializzazione; investire nella ricerca pubblica e sostenere quella privata.

C’è infine il capitolo delle politiche sociali, che vanno intese non solo come argine alla disgregazione sociale, ma come ingrediente essenziale per accompagnare il necessario cambiamento strutturale. Accentuazione dell’equità del sistema fiscale e revisione degli strumenti di welfare in direzione di un maggiore universalismo dovranno occupare un posto molto alto nelle priorità del governo. Del resto, è proprio su questi temi che è stata percepita in modo più netto l’insufficienza del governo Monti, con l’esito elettorale che sappiamo.

Ancora non conosciamo la fisionomia del nuovo governo; ma è chiaro che tanto meno il governo Letta rappresenterà un elemento di discontinuità in termini di volti, tanto più tale discontinuità, chiesta a gran voce dall’elettorato, dovrà manifestarsi nei programmi e nelle azioni. Su questo convergono del resto le domande del paese e l’interesse strettamente politico del centrosinistra. Pur con le differenze di contesto, il destino del partito socialista greco, che in nome di un malriposto senso di responsabilità si è immolato alle politiche di austerità, favorendo il ritorno al potere della destra e la crescita delle forze antisistema, è un monito che i leader democratici hanno certamente ben chiaro.