L’epidemia non sta mettendo sotto stress soltanto le strutture sanitarie, ma anche i principi sui quali il sistema sanitario nazionale è stato costruito. La questione dell’obbligo vaccinale ha creato un corto circuito nel nostro modo di guardare al diritto alla salute e questo rischia di produrre effetti permanenti.

Veniamo quotidianamente informati del fatto che i ricoverati per Covid sono in parte consistente persone non vaccinate. Al fine di promuovere la vaccinazione, le statistiche sono presentate in modo da sottolineare questo aspetto e lo stesso Presidente del Consiglio ha recentemente affermato durante la sua conferenza stampa che

gran parte dei problemi che abbiamo oggi dipende dal fatto che ci sono dei non vaccinati.

Da qui il passo è breve perché si attribuisca ai non vaccinati la responsabilità per il fatto che molti reparti ospedalieri, riconvertiti a reparti covid, non siano in grado di garantire le normali prestazioni per le altre patologie. Affermazioni che circolano da mesi sulla bocca di medici, opinionisti e addirittura leader storici della sinistra, non più tardi di ieri sera hanno trovato un’ulteriore esplicitazione nella dichiarazione di Pierluigi Bersani. Durante una trasmissione televisiva l’ex segretario del Pd ha affermato che

Finché si può, si cura tutti. Arrivassimo al punto che i medici devono scegliere chi curare, bisogna che rifacciamo la classifica”.

Vorrei partire proprio da queste affermazioni, prendendone per valide le premesse: vaccinarsi riduce il rischio di incorrere in una forma grave della malattia e quindi di occupare posti e risorse che altrimenti potrebbero essere utilizzate per altri malati e altri bisogni.

Una prima osservazione è che un sistema sanitario universalitistico come il nostro S.S.N. crea un’interdipendenza tra i membri della collettività che non ci sarebbe o ci sarebbe in misura molto minore se le cure sanitarie fossero un qualsiasi bene acquistabile sul mercato. Il meccanismo assicurativo e il principio dell’accesso alle cure basato sul bisogno (invece che sulla disponibilità a pagare) fanno sì che il costo delle cure per la nostra salute sia sostenuto dalla collettività nel suo insieme.

Qui va sottolineato un aspetto importante. Non solo in un sistema come il nostro l’accesso alle cure è (o dovrebbe essere) indipendente dal reddito, ma esso è anche indipendente dall’esistenza di fattori di rischio individuale. Non ci sono clausole che rendano inapplicabile la nostra polizza assicurativa. Il fatto di avere un maggiore rischio di ammalarsi per fattori demografici, per caratteristiche innate, ma anche per lo stile di vita più o meno sano, non comporta né un diverso contributo al finanziamento del sistema né una diversa priorità nell’accesso.

Nell’ambito del sistema sanitario pubblico, vieni curato indipendentemente dall’aver assunto comportamenti «a rischio». Non conta la dieta che segui, non conta il praticare attività sportiva, non conta l’essere fumatori o obesi, l’essersi sottoposti a screening o prevenzione. Chi incorre in un incidente stradale viene curato anche se superava i limiti di velocità, se non aveva la cintura e magari stava guidando in stato di ebrezza. L’accesso alle cure è pensato come un diritto, regolato soltanto dalla condizione di bisogno. Si tratta, a pensarci, di una conquista importante e di un principio di civiltà, del quale forse non siamo abbastanza consapevoli.

Eppure è innegabile che il nostro stile di vita, le nostre decisioni di svolgere certe attività e assumerci certi rischi, abbiano un costo per la collettività che paga per le nostre cure. La limitatezza delle risorse fa sì che il posto che occupo sia sempre un posto sottratto ad altri. È chiaro che quando la domanda è maggiore il vincolo di scarsità si fa sentire maggiormente e si avverte in modo più netto come salvare una vita sia spesso abbandonarne un’altra al suo destino. La situazione in condizioni normali è meno drammatica di come è oggi con l’epidemia in corso, ma non ci sono mai risorse inutilizzate e ci sono sempre liste di attesa, dunque la differenza è solo una questione di grado, di quantità e non di qualità: nel momento in cui otteniamo una cura, un esame, un ricovero, questo ha un costo (come economisti lo chiamiamo costo opportunità) in termini di rinuncia o ritardo nella cura di qualcun altro. Il dilemma, la scelta tragica, è forse meno frequente e meno visibile, ma qualsiasi medico potrà testimoniare che il dilemma su chi salvare non è una novità introdotta dall’epidemia.

Da qui la reazione, per certi versi comprensibile, di chi pensa ai posti che si libererebbero se tutti si vaccinassero. Il nesso è di tipo probabilistico, ma questo cambia poco. Chi non si vaccina scommette avendo una probabilità molto più alta di perdere, se perde non ne subirà solo lui le conseguenze, ma impedirà l’accesso alle cure ad altri, che hanno sostenuto il costo di vaccinarsi (in termini di rischio di effetti collaterali). Si tratta di una considerazione semplice, che è immediato porre in termini di equità: non è giusto che chi non ha fatto la sua parte abbia i miei stessi diritti. Reazione comprensibile, dicevo, ma anche pericolosa per quanto ne può seguire.

Affermare che chi non ha fatto quanto in suo potere per ridurre il rischio di ammalarsi debba perdere la sua priorità di accesso alle cure a favore di chi ha svolto tutto quanto prescritto e raccomandato significherebbe stravolgere i principi di base del funzionamento del sistema sanitario, l’idea dell’accesso in base al bisogno che ha retto il nostro sistema. Introdurre un criterio «meritocratico» per stabilire la priorità aprirebbe la porta a scenari inquietanti: perché non un sistema per cui l’accesso alle cure oncologiche è assegnato in base alla frequenza degli screening preventivi (colonscopie, mammografie ed esami alla prostata)? Perché non stabilire che il tumore ai polmoni viene curato in precedenza ai non fumatori? Per le malattie cardiovascolari, l’accesso potrebbe essere determinato dal livello di colesterolemia e all’obesità. Una volta passata l’idea che si possano premiare o sanzionare i comportamenti in base al loro effetto statisticamente comprovato sull’insorgere di certe patologie, le possibilità non mancano. Si tratta di un esito distopico. Mi chiedo quanta consapevolezza abbia di questa possibile evoluzione chi con troppa leggerezza parla di revisione dei criteri di accesso in base allo stato vaccinale.

Naturalmente ci sono altre possibilità. Se non vogliamo che i comportamenti virtuosi influenzino l’accesso alle cure, essi potrebbero comunque rappresentare la base per definire il sistema di finanziamento della sanità. Anche in questo caso dal punto di vista economico la logica è trasparente: i tuoi comportamenti implicano una maggiore probabilità di ricorso alle cure, dunque un maggior costo per la collettività. Con linguaggio economico diciamo che le scelte individuali determinano un’esternalità, un costo sociale in aggiunta al costo individuale per il singolo. Ciò potrebbe giustificare un intervento pubblico mirante a far «internalizzare» gli effetti delle decisioni attraverso la modulazione dei contributi in base al rischio individuale.

Ecco quindi che il non vaccinato paga una sanzione o una sovrattassa commisurata al costo che la mancata vaccinazione comporta per gli altri. Come per l’inquinamento, come per altri comportamenti socialmente costosi, il contributo alla spesa sanitaria non è più uniforme o determinato dal reddito, bensì modulato sulla base del rischio e quindi delle scelte individuali. Pur rispettando il criterio di accesso in base al bisogno, anche questa soluzione pone tuttavia un problema esistenziale a un sistema sanitario pubblico, il cui finanziamento, tramite imposte, si basa sulla capacità contributiva e non sulla rischiosità. È nei sistemi basati sulle assicurazioni private che i premi vengono differenziati e modulati sulle caratteristiche individuali, si propongono sconti basati sull’effettuazione di check-up sulla salute, si aumenta il prezzo in base all’età (un anziano costa più di un giovane). L’adozione di una logica puramente assicurativa (premio allineato con il rischio) è l’anticamera della privatizzazione.

Insomma, se vogliamo mantenere in piedi un sistema pubblico, sia nei criteri di accesso alle cure (nessuna priorità in base al «merito») sia nel finanziamento (pagamento tramite imposte senza considerazione per i fattori di rischio), le soluzioni descritte non sono percorribili.

Resta una terza possibilità, che è quella di incoraggiare, o in alcuni casi addirittura obbligare, comportamenti che riducano il rischio di dover ricorrere all’assistenza sanitaria. Le cinture di sicurezza sono un esempio molto citato in questi mesi. La misura appare paternalistica se la si vede come una protezione rivolta solo all’individuo. Ricordo che proprio questa era l’obiezione principale quando fu introdotta: perché lo Stato deve impormi qualcosa per il mio bene? Non devo essere io a decidere se il fastidio di utilizzare la cintura giustifica il rischio che corro non utilizzandola? Non è una decisione che alla fine ricade solo su me stesso? In effetti no. Dal momento che le cure in caso di incidente sono a carico della collettività, il rischio individuale non è più solo individuale. Lo stesso vale per il fumo: l’esternalità, il danno a terzi, non è solo il fumo passivo, ma anche e soprattutto il fatto che le mie cure ricadranno sulla collettività (per la verità c’è chi ha argomentato che un fumatore spesso costa alla collettività meno di un non fumatore perché ha una vita attesa più breve, ma la questione è controversa).

È chiaro che in questa logica si possono giustificare anche gli obblighi vaccinali. Ecco perché un’opposizione al vaccino basata sulla rivendicazione della salute come fatto individuale («il corpo è mio») risulta assai debole. Il corpo è tuo ma, nel caso, le cure non sono a carico tuo. In certa misura la tua salute «appartiene» alla collettività, visto che dovrà farsene carico. Sì lo so, l’affermazione è forte, ma francamente è difficile trovare argomenti per respingerla.

I problemi non mancano neppure per questa soluzione. In circostanze emergenziali l’obbligo vaccinale può apparire una soluzione ragionevole, ma le attuali vicende hanno mostrato quanto un obbligo del genere possa essere percepito come invasivo. L’imposizione di obblighi e divieti incontra un limite nel fatto che teniamo tutti in gran conto la nostra libertà di decidere se e come curarci e siamo gelosi della nostra autonomia nella scelta del nostro stile di vita, che consideriamo parte della nostra identità. Chi sopporterebbe uno stato che ci imponesse la dieta, lo svolgimento di attività fisiche o esami diagnostici periodici?

Esistono forme di pressione più «morbide», il famoso nudge, la spinta gentile. In Toscana ai residenti con più di 50 anni di età arrivano per posta inviti a svolgere test per prevenire le forme più frequenti di tumori, con fogli illustrativi che informano e invitano. L’enfasi su uno stile di vita sano e salutista è parte ormai della nostra cultura e in fondo è giusto che anche le autorità sanitarie lo promuovano. Del resto, siamo i primi ad avere interesse a vivere più a lungo e in salute, quindi non dovrebbe essere troppo difficile convincerci, anche senza costrizione, ad adottare comportamenti che riducono il rischio di certe patologie. È sufficiente la moral suasion? Oppure servono pressioni più forti?

È un equilibrio non facile da trovare quello tra la promozione di comportamenti «virtuosi» e rispetto della libertà di ciascuno. Spesso si esagera nel gridare allo «stato etico» ogniqualvolta si vogliano promuovere attivamente comportamenti socialmente desiderabili, ma il rischio di farsi prendere la mano indubbiamente esiste. Dunque, ben vengano paletti, cautele e riserve di legge (come quella prevista dall’art. 32 della Costituzione). Non può bastare l’esistenza di un vantaggio per i conti pubblici per giustificare un’interferenza con il diritto di autodeterminazione nelle scelte di salute.

Al fondo di questo ragionamento mi rendo conto che non ho vere soluzioni da proporre. Volendo difendere l’idea di sanità universale e pubblica, e quindi respingendo le prime due soluzioni descritte, resta comunque una tensione ineliminabile, quella tra l’aspirazione a curare tutti in modo uniforme e il rispetto della libertà di ciascuno di scegliere il proprio stile di vita, anche quando include comportamenti che aumentano i rischi per la salute e quindi portano a un maggiore uso di una risorsa collettiva. La vicenda del COVID e dei vaccini ha mostrato come molti avvertano questa tensione come una minaccia al principio di equità, al punto di voler mettere in discussione il principio basilare per cui la cura si eroga in base al bisogno.

Se siamo arrivati a questo snodo indubbiamente ha gravi responsabilità chi ha alimentato una campagna di demonizzazione dei novax, pensando che questo fosse il modo più efficace per promuovere il vaccino. D’altra parte, per le ragioni illustrate, la mera rivendicazione della propria autonomia nelle scelte sulla propria salute non appare una risposta valida e convincente. Siamo una comunità interdipendente, resa tale anche dalla «socializzazione» dei rischi legati alla salute, e dobbiamo dunque accettare che le nostre scelte riguardino anche gli altri. Tra libertà e responsabilità c’è un nesso che non può essere reciso né risolto in modo semplicistico.