La flat tax è uno dei temi caldi di questa campagna elettorale. Cavallo di battaglia della Lega, è oggetto di critiche pesanti da parte delle forze di centrosinistra. Al di là della questione redistributiva, la proposta leghista presenta alcuni caratteri paradossali che di seguito proviamo brevemente a illustrare.

Una riforma fiscale può essere valutata da diversi punti di vista. Il primo è il calcolo di chi guadagna e chi perde nel confronto con il sistema precedente ed è l’esercizio più comune sui media. Del resto, la prima domanda che si pone il contribuente riguarda la ricaduta della riforma sulle sue tasche.

Il secondo punto di vista è quello dell’equità distributiva dell’imposta che uscirebbe dalla riforma. Nel caso di un intervento sull’Irpef solitamente si guarda alla progressività, dunque il riferimento è all’andamento dell’aliquota media, ovvero al rapporto tra imposta e reddito in corrispondenza di ciascun livello di quest’ultimo. Un’imposta è infatti progressiva se l’aliquota media cresce al crescere del reddito.

La flat tax viene solitamente criticata in quanto riduce la progressività, che per questa imposta è affidata non più agli scaglioni ma all’applicazione di deduzioni dall’imponibile. Con la flat tax l’aliquota unica rappresenta un limite superiore al carico fiscale gravante sul contribuente. Il vantaggio è soprattutto per i redditi più elevati, che sono assoggettati a un carico fiscale inferiore rispetto a un sistema che prevede scaglioni con aliquote crescenti. Da qui la maggior parte delle critiche sulla mancanza di equità.

Una prima cosa da dire è che la proposta di flat tax avanzata dalla Lega (ci riferiamo qui al testo del DDL depositato nel maggio 2020 in Parlamento) non introduce una vera flat tax, ma si limita a prevedere un regime sostitutivo dell’attuale Irpef da applicare ai redditi al di sotto di una certa soglia, fissata in funzione dalla composizione familiare. È vero che il regime sostitutivo prevede un’unica aliquota, ma la presenza della soglia vanifica l’effetto più importante della flat tax, che, come dicevamo, è la riduzione del carico fiscale per i redditi elevati. A tali redditi continuerebbe ad applicarsi il sistema progressivo per scaglioni.

L’effetto distributivo della flat tax leghista si può cogliere immediatamente confrontando la curva delle aliquote medie da essa prodotta con la curva relativa all’Irpef attualmente in vigore (abbiamo preso a riferimento il 2021, prima del ritocco attuato dal governo Draghi, perchè a tale situazione si riferisce anche il disegno di legge). Per effettuare il confronto è necessario, come dicevamo, distinguere i casi in base alla composizione familiare. Le soglie reddituali e le deduzioni dall’imponibile sono infatti differenziate a seconda che si tratti di famiglie «monocomponente», di famiglie monoreddito con familiari a carico o di famiglie bireddito (in un post successivo diremo qualcosa di più di questa scelta di riferirsi al reddito familiare).

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È evidente dai grafici quali siano le fasce di reddito avvantaggiate dalla riforme, ma in questo articolo non intendiamo approfondire specificamente questo aspetto.

Esiste infatti un terzo punto di vista per valutare una riforma, cui gli economisti prestano molta attenzione ma che normalmente resta un po’ marginale nel dibattito pubblico. Per meglio dire: nel dibattito tale punto di vista è presente tutte le volte che si parla degli effetti dell’imposta sull’attività economica e il comportamento dei contribuenti, ma la meccanica di tale effetto è spesso poco compresa e non è affrontata in modo corretto.

Un’imposta sul reddito condiziona le decisioni del contribuente in molti modi. Determinando il reddito netto, essa può influenzare la scelta di lavorare e quanto lavorare (part-time o tempo pieno? quanti straordinari?), la decisione di assumere rischi o responsabilità, la scelta di accettare un lavoro lontano da casa, e così via. Nell’effettuare o non effettuare tali scelte l’individuo confronta i costi personali della decisione con la maggiore remunerazione che gli viene offerta. È chiaro che a maggiore remunerazione corrisponderà un maggiore incentivo ad accettare rischi, responsabilità, disagi, e così via. È altrettanto chiaro che, a parità di offerta da parte del datore di lavoro, un aumento di reddito risulterà tanto meno attraente quanto più elevata è l’imposta su di esso gravante, cioè quanto maggiore sarà la parte dell’aumento che va allo Stato invece che nelle tasche del nostro lavoratore/contribuente.

Stiamo insomma parlando del ben noto effetto disincentivante dell’imposta, un effetto riconosciuto da tutti gli economisti, sebbene diversa sia la valutazione della sua rilevanza e quindi del costo che l’imposta determina per l’economia in termini di minor reddito prodotto. Normalmente, le riduzioni dell’imposta sul reddito (ad esempio con l’adozione della flat tax) vengono giustificate proprio perché si suppone che tale effetto disincentivante sia significativo e quindi un’aliquota più bassa possa incoraggiare la creazione di ricchezza.

Serve a questo punto una precisazione importante: l’effetto disincentivante dell’imposta non dipende tanto dall’aliquota media, bensì da quella che in gergo viene chiamata aliquota marginale effettiva. L’aliquota marginale effettiva altro non è che l’imposta gravante su una variazione incrementale del reddito del nostro contribuente. Questo perché le nostre decisioni si traducono quasi sempre in variazioni di entità limitata del nostro reddito, in aumento o in diminuzione.

Mettiamo che il contribuente abbia un reddito di 30 mila euro e poniamo che stia considerando di accettare di svolgere uno straordinario (o accettare un diverso incarico) che comporterà un aumento a 31 mila. Quanta parte dei 1000 euro aggiuntivi resteranno in tasca al contribuente? Quanta parte andranno al fisco? Si tratta di valutare l’aumento (o riduzione) di imposta che accompagna un aumento (o riduzione) del reddito «al margine». L’aliquota marginale effettiva, appunto.

In un sistema a scaglioni «puro» l’aliquota marginale corrisponde all’aliquota nominale dello scaglione in cui ricade il reddito del contribuente. Ad esempio: nell’Irpef vigente, se ho un reddito compreso tra 28 mila e 50 mila euro, l’aliquota dello scaglione corrispondente è del 35% e questo dovrebbe significare che a fronte di un aumento del mio reddito di 1000 euro l’imposta aggiuntiva è di 350 euro.

Nella realtà, l’aliquota marginale effettiva può divergere dall’aliquota nominale dello scaglione per la presenza di deduzioni e detrazioni il cui ammontare dipende dal reddito stesso. Sempre parlando dell’Irpef vigente, si può mostrare con qualche semplice calcolo che nella fascia di reddito tra 28 mila e 50 mila un aumento di reddito imponibile di 1000 euro comporterà per un lavoratore dipendente una maggiore imposta di 437 euro. Diremo allora che l’aliquota marginale effettiva è pari a 437/1000, cioè al 43,7%, un valore superiore a quel 35% indicato dallo scaglione.

Per inciso, una delle ragioni dichiarate della recente rimodulazione delle aliquote attuata dal governo Draghi era proprio quella di eliminare alcuni effetti che gli interventi degli anni precedenti sul sistema di detrazioni (in primis il «bonus Renzi») avevano prodotto sulle aliquote marginali effettive.

Ma torniamo alla flat tax proposta dalla Lega. Nei limiti della soglia reddituale entro cui si applica, la riforma proposta abolisce gli scaglioni e le detrazioni. All’imponibile è applicata un’aliquota unica del 15%. Si potrebbe pensare che in questo caso il 15% sia anche l’aliquota marginale, ma non è così. La ragione è in questo caso la presenza di deduzioni di ammontare variabile in base al reddito. Ad esempio: nel caso del contribuente single (famiglia «monocomponente») a partire dai 14 mila euro la deduzione diminuisce linearmente fino ad annullarsi in corrispondenza dei 30 mila euro. Se il nostro contribuente single ha un reddito di 20 mila euro e ottiene un aumento di reddito di 1000 euro, il suo reddito disponibile, cioè quanto che gli rimane in tasca dopo aver pagato l’imposta, aumenterà di 719 euro, mentre 281 euro andranno all’erario. L’aliquota marginale effettiva è in questo caso pari a 28,1%.

È proprio esaminando l’andamento dell’aliquota marginale effettiva che si evidenzia un effetto non proprio desiderabile derivante dall’adozione della flat tax. Tale effetto dipende dal fatto che la flat tax, una volta raggiunta la soglia reddituale, deve raccordarsi con il sistema ordinario a scaglioni.

Continuando a considerare il nostro contribuente single, vediamo che l’aliquota del 15% si applica solo se il suo reddito resta nel limite dei 26 mila euro. Se il reddito fosse di 30 mila euro o superiore, si applicherebbe un sistema a scaglioni, con aliquota media a partire dal 19%.

Per raccordare l’aliquota del 15% a 26 mila euro e quella al 19% a 30 mila euro, è previsto un cosiddetto «scivolo», ovvero un aumento graduale dell’aliquota media. Ciò significa che a un contribuente con reddito 26 mila si applicherà (sull’intero reddito imponibile) un’aliquota del 16%, a un contribuente con reddito di 27 mila un’aliquota del 17% e così via fino al 19%. La soluzione apparentemente pulita nasconde in realtà un problema piuttosto rilevante, del quale ci si può rendere conto facilmente calcolando l’aumento dell’imposta nel passaggio da 25 mila a 26 mila ecc. Riporto i valori nella tabella che segue:

Imponibile Imposta Δ imposta Aliq. marginale
26.000 3.375    
27.000 3.900 525 52,5%
28.000 4.462 562 56,2%
29.000 5.062 600 60,0%
30.000 5.683 621 62,1%

L’aliquota marginale corrisponde all’incremento di imposta rapportato all’imponibile. Come si vede, esso raggiunge in questo caso valori assai alti: il nostro contribuente non godrà che di una piccola parte del suo incremento di reddito, la maggior parte andrà al fisco. Non un grande risultato se l’obiettivo è quello di incoraggiare la produzione del reddito, l’attività economica, il lavoro. Per i contribuenti con redditi in questo intervallo (e sono moltissimi!) l’effetto disincentivante è significativo.

La situazione assume contorni addirittura paradossali se consideriamo una diversa composizione del nucleo familiare. Prendiamo il caso di un contribuente con coniuge a carico (poniamo che il coniuge non percepisca alcun reddito). In questo caso la soglia per l’applicazione dell’aliquota flat è più alta ed è pari a 50 mila euro. In corrispondenza dei 50 mila euro si ha poi uno «scivolo», analogo a quello visto tra i 26 e i 30 mila euro, che porta l’aliquota al 30% in corrispondenza di un reddito di 55 mila euro.

Il problema è che in questo caso la differenza, tra il 15% e il 30%, è molto forte e quindi l’imposta deve crescere più velocemente. Il DDL prevede che per ogni 1000 euro in più l’aliquota media, appicata all’intero reddito del contribuente, cresca di ben 3 punti percentuali: a 51 mila euro l’aliquota sarà dunque del 18%, a 52 mila sarà del 21% e così via, a salire. Effettuiamo nuovamente il calcolo e vediamo che succede:

Imponibile Imposta Δ imposta Aliq. marginale
50.000 7.500    
51.000 9.180 1.680 168,0%
52.000 10.920 1.740 174,0%
53.000 12.720 1.800 180,0%
54.000 14.580 1.860 186,0%
55.000 16.500 2.080 208,0%

Sì, avete letto bene: se il reddito del nostro contribuente aumenta da 50 a 51 mila euro, l’imposta aggiuntiva dovuta sarà del 168%, ovvero di 1.680 euro. L’aumento renderà il contribuente più povero! Aumentando di altri 1.000 euro, fino a 52 mila, l’imposta aumenterà di altri 1.740 euro. Si crea cioè una situazione realmente paradossale, per la quale il contribuente, potendo, preferirebbe non conseguire l’aumento di reddito.

Il lettore non avrà difficoltà ad immaginare quali perversi incentivi creerà un dispositivo di questo genere nei contribuenti il cui reddito ricade nell’intervallo interessato. Come ci comporteremmo se un aumento dei nostri guadagni lordi ci rendesse più poveri? L’effetto sarà quello di scoraggiarli dal conseguire un certo reddito e magari, spingerli a ottenere tale reddito «in nero», evadendo un’imposta che in questo caso opera peggio di una confisca.

Gli economisti sono spesso in disaccordo su quale sia il grado ottimale di progressività di un’imposta e su molti altri aspetti del sistema fiscale. Su un punto sono però unanimemente concordi: l’imposta non deve mai determinare l’effetto descritto, per cui il conseguimento di un reddito impoverisce il contribuente. Un’imposta che determina un effetto del genere è semplicemente mal concepita, al di là di come la si pensi sulla flat tax e sul livello delle imposte. I sistemi fiscali sono meccanismi delicati, chi ci mette le mani dovrebbe evitare di farlo in modo così maldestro.