È possibile uscire dall’euro seguendo un percorso decisionale democratico? La democrazia, si sa, è lenta, ha i suoi tempi. Tempi di raccolta del consenso, di dibattito, di mediazione, di decisione. Invece, un abbandono della moneta unica richiederebbe decisioni rapide, da prendere nel giro di giorni se non di ore, e da realizzare senza esitazione. Questo per evitare che nel frattempo i mercati (cioè i risparmiatori, i correntisti ecc.) reagiscano alla prospettiva di uscita prosciugando la liquidità del sistema bancario e mettendo al tappeto il sistema finanziario del paese interessato. Dunque, si afferma, l’uscita democratica non è praticabile, e questo chiuderebbe, nell’opinione di qualche commentatore, ogni discussione a riguardo.

Tuttavia, questo non è un modo corretto di affrontare la questione. Per cominciare, perché si inneschino reazioni difensive dei risparmiatori, con tutto quanto ne consegue, non è nemmeno necessario che il tema dell’uscita sia calendarizzato in Parlamento; potrebbe essere sufficiente che una forza politica esplicitamente favorevole all’uscita acquistasse peso nei sondaggi in prossimità di una consultazione elettorale per determinare l’innesco di una possibile fuga dei capitali o corsa agli sportelli. Qualche avvisaglia di quello che sto dicendo si ha con le notizie di questi giorni, di un aumento degli spread a seguito delle dichiarazioni di Marine Le Pen su una possibile Frexit. Si noti: non solo gli spread francesi, anche quelli italiani.

Dopo il whatever it takes di Draghi del luglio 2012 la tesi della irreversibilità dell’euro è risultata per un po’ credibile. Ma diventa sempre più difficile scommettere sull’impossibilità di una rottura, e dopo quanto avvenuto nel Regno Unito e negli USA nessuno può escludere un successo di forze ostili all’Unione europea nei grandi Paesi dell’Europa continentale.

Si capisce dunque come il discorso pubblico sull’euro sia segnato dal paradosso per cui il solo parlare apertamente di uscita rende più verosimile tale possibilità. Ciò spinge inesorabilmente verso una sorta di radicalizzazione del discorso, per cui chi pone la questione viene accusato di voler destabilizzare il sistema e chi difende la permanenza nella moneta unica finisce con l’arroccarsi nell’argomento per cui l’uscita è, a prescindere dai suoi costi o svantaggi, un tabù impossibile anche solo da concepire.

Tornando alla questione iniziale, l’obiezione è in realtà molto semplice: il fatto che l’uscita dall’euro ci appaia incompatibile con lo svolgimento di un processo decisionale democratico non significa che un paese democratico non possa trovarsi a dover affrontare tale decisione.

Del resto, anche un ipotetico (e per fortuna al momento non verosimile) attacco militare da parte di un paese straniero richiederebbe decisioni rapide e misure immediate, ma in una situazione di rischio concreto nessuno considererebbe questa una buona ragione per ignorare tale possibilità. Analogamente, e con tanta maggiore urgenza, occorre prepararsi alla possibilità di un’uscita dalla moneta unica; non solo approntando (nel Ministero del Tesoro, in Banca d’Italia) dei contingent plan che consentano di reagire con efficacia e tempestività, ma anche preparando l’opinione pubblica a questa possibilità.

Il rischio è che, altrimenti, di fronte al possibile verificarsi di una situazione analoga a quella del nostro paese a fine 2011, o della Grecia nell’estate del 2015, ci si trovi del tutto impreparati, e si percepisca come unica possibilità quello di consegnarsi mani e piedi a qualche trojka o altro meccanismo di condizionalità, sacrificando tutto il sacrificabile per restare attaccati ad un progetto, quello della moneta unica, i cui limiti sono ormai a tutti evidenti.

Peraltro, in un simile frangente, la decisione di restare non avverrebbe anch’essa con tempi e modi emergenziali, soffrendo dunque del medesimo “vizio” procedurale, dello stesso deficit di democrazia, che viene rimproverato alla possibile decisione di uscire? O ci sembra che il modo in cui il governo Berlusconi fu sostituito dal governo Monti corrisponda al normale funzionamento di un paese democratico?

In conclusione, se l’emergenza è nemica della democrazia, anzi proprio per questa ragione, la cosa peggiore è rifiutarsi di affrontare la questione negandone la possibilità, o dando credito a scenari catastrofistici che hanno il solo scopo di impedire ogni discussione razionale e seria sui possibili costi e benefici di un abbandono dell’euro — o della permanenza in esso.