Dopo aver commentato in un precedente post la presa di posizione di Bersani, vale la pena di spendere qualche parola su quanto propongono altri due protagonisti di primo piano della sinistra di governo. Mi riferisco all’articolo di Michele Salvati sul Corriere del 3 gennaio e a quello di Massimo D’Alema sul numero in uscita di ItalianiEuropei, del quale sono stati anticipati alcuni stralci.

Salvati è un economista da sempre attivo nel dibattito politico. Figura autorevole della sinistra, è considerato a ragione tra gli ispiratori del progetto del Partito democratico come partito di sinistra liberale “a vocazione maggioritaria”. Ed è, per sua stessa ammissione, uno di quelli che a Renzi ci aveva creduto sul serio, salvo affermare ora che quella di Renzi era una mission impossible.

Nel suo editoriale parte naturalmente dall’esito referendario. Salvati sembra attribuire interamente la vittoria del No al sentimento di insoddisfazione degli italiani; come già molti altri promotori di quella riforma, si mostra cioè incapace di comprendere o anche solo immaginare la possibilità di un’opposizione di merito alla modifica costituzionale proposta.

Ma il punto su cui vale la pena soffermarsi è la sua lettura dell’attuale fase: posto che il ristagno economico «ha radici profonde nazionali e internazionali ed è destinato a durare», Salvati evidenzia il dilemma (come economisti diremmo: il trade-off) tra gli interventi destinati a migliorare il benessere immediato dei cittadini e le “riforme strutturali serie”. Nei rivolgimenti in atto in tutte le democrazie occidentali egli non vede il segno di una contraddizione profonda determinata dalle politiche degli ultimi decenni. Il suo ragionamento è interno alla visione che tali politiche ha sostenuto fin dall’emergere della crisi: l’idea che ci sia un conflitto tra “ciò che serve”, cioè le riforme calate dall’alto, e ciò che i cittadini, impazienti di vedere risultati e aizzati da movimenti populisti che propongono soluzioni illusorie, sono disposti ad accettare. Salvati ha sufficiente pudore intellettuale per non dire esplicitamente che il problema è la democrazia, ma la sfiducia estrema nella possibilità che vi sia coerenza tra ciò che gli elettori in maggioranza chiedono e ciò che serve a superare la crisi traspare da ogni riga del suo editoriale.

Quale prospettiva dunque sul piano politico? Salvati si rende conto che l’idea di una competizione al centro tra una destra e una sinistra moderata non è ormai più praticabile. I soggetti su cui dovrebbe costruirsi un possibile bipolarismo sono ormai forze minoritarie nel paese, minacciate e incalzate dai populismi. La proposta, puramente difensiva, è dunque quella di un arroccamento al centro:

una coalizione tra tutte le forze riformistiche e filoeuropee, come avviene quasi ovunque in Europa sotto la minaccia dei populismi

che si ponga il compito di “salvare il salvabile”, cioè portare avanti il progetto delle riforme strutturali chieste dall’Europa.

Molte riforme in corso di attuazione sono accettabili da un ampio spettro di forze politiche riformiste e garantire la continuità del disegno riformatore non dovrebbe essere impossibile.

Vale la pena di osservare la torsione finale che in questo quadro ha ormai subito il termine “riformista”, attribuito ad un tale disegno di alleanza che dovrebbe estendersi dal Pd (forse ripulito dell’ala più riottosa e di sinistra) fino alla parte più europeista del berlusconismo. E non chiamiamolo per favore “partito della nazione”, perché non è certo l’interesse della nazione quello che, nelle intenzioni dei proponenti, una tale compagine si troverebbe a difendere.

Rispetto a tale prospettiva, con la quale immaginiamo si possa trovare in sintonia la dirigenza renziana del Pd, ben diversa appare la lettura di Massimo D’Alema.

Per l’ex Presidente del Consiglio il punto di partenza è il ruolo della sinistra, la sua missione storica, che egli individua nella capacità di ridurre le diseguaglianze, combattere la povertà, restituire dignità al lavoro. È un ruolo al quale, ci spiega D’Alema, la sinistra è venuta meno, finendo per apparire come forza a difesa dell’establishment, lontana dai bisogni e sentimenti popolari. D’Alema ha chiarissimo il rischio che l’enfasi sulla governabilità possa condannare la sinistra ad una posizione di subalternità e alla rinuncia alle sue ragioni costitutive. In questo senso, la rotta di collisione con Salvati non potrebbe essere più netta:

Il rischio, per i socialisti, è grave: diventare progressivamente junior partners delle forze conservatrici, appannando la propria identità e rafforzando così le ragioni di chi guarda all’establishment europeo come a un insieme sostanzialmente, politicamente e culturalmente omogeneo.

La svolta politica che D’Alema chiede alla sinistra è insomma

il coraggio di rompere con il conformismo e l’eccesso di prudenza e gradualità che hanno finora caratterizzato l’azione del socialismo europeo (…) un programma effettivamente radicale di cambiamento delle politiche europee e, in prospettiva, degli stessi assetti istituzionali.

E tale programma in cosa consiste? Qui per la verità si ripetono cose non particolarmente nuove: un massiccio piano europeo di investimenti, anche pubblici e anche finanziati in deficit (questo forse il punto più “spinto” della sua proposta), un progetto europeo per la formazione, la ricerca e l’innovazione, un rinnovamento del welfare che realizzi un nuovo patto sociale tra Stato, società civile, privato sociale, ecc.

Leggendo, ci chiediamo però quali nuove condizioni potrebbero rendere tali obiettivi realizzabili. D’Alema aggiunge ad ogni proposta l’aggettivo “europeo”, e afferma che “la rinazionalizzazione delle politiche economiche” (così come ogni ipotesi di fuoriuscita dall’euro) sarebbe un’illusione regressiva. Se ne deduce che questo cambio di passo dovrebbe passare da un cambiamento di linea politica condiviso a livello di Unione, promosso dai partiti socialisti europei cui egli sembra in primo luogo rivolgersi.

È qui però che i conti non tornano. D’Alema sembra ragionare come se esistesse un governo europeo o quanto meno come se i partiti socialisti fossero egemoni nelle sedi decisionali europee. Sappiamo invece quali siano i rapporti di forza in gioco. Sappiamo ad esempio quali siano, al di là delle buone intenzioni a quelche isolata e limitata presa di posizione, gli spazi di azione di un partito come il tedesco SPD, che deve comunque rispondere agli orientamenti e gli interessi oggettivi di un elettorato nutrito per anni con l’idea autorassicurante che il problema fosse l’indisciplina e la cattiva volontà dei paesi periferici. Sappiamo anche che il cambio di rotta suggerito richiederebbe un ripensamento dello stesso modello di crescita tedesco, basato sulla competitività e sul traino dell’export. Sappiamo che una ripresa dell’inflazione a livello europeo determinerebbe una levata di scudi da parte degli elettori tedeschi, che vedrebbero svalutarsi i propri crediti e risparmi. Sappiamo insomma che non ci sono le condizioni perché quella diversa politica auspicata da D’Alema trovi il consenso nel Paese con l’economia più forte dell’eurozona.

Die neue Angst vor der Inflation

Ma su questo punto purtroppo manca ogni indicazione. Non ci viene spiegato per quale strada dovrebbe realizzarsi il cambiamento richiesto. Temo che al fondo ci sia una difficoltà a fare i conti con il totem dell’europeismo. Ma senza un tale passaggio, le esortazioni di D’Alema corrono il rischio di cadere nel puro volontarismo; di rappresentare una pura petizione di principio, come tante analoghe prese di posizione degli anni passati. Che sono poi state puntualmente smentite quando la sinistra, al governo, era comunque costretta dalle circostanze a realizzare ben altro programma.

Salvati e D’Alema indicano insomma direzioni divergenti, per alcuni versi opposte. Parlano anche a interlocutori diversi: laddove Salvati chiama a raccolta le forze “riformistiche e filoeuropee”, D’Alema ha a cuore il futuro della sinistra. Se il Partito democratico seguisse la strada del primo, avrebbe luogo la sua definitiva trasformazione in partito dell’establishment. La via indicata dal secondo è certamente molto più in linea con le aspirazioni di un ampia fetta di militanti e dirigenti della sinistra. Eppure, in assenza di una presa d’atto delle condizioni di contesto e di fattibilità del progetto indicato, rischia di portare allo stesso risultato: la scomparsa della sinistra dal futuro dell’Europa.


Addendum 11/1/2017: Nel frattempo l’articolo integrale di D’Alema è stato pubblicato sul sito di ItalianiEuropei. Ad una lettura completa si conferma la valutazione data: una presa di coscienza degli errori della sinistra di governo, particolarmente apprezzabile considerato che viene da uno dei protagonisti di quella stagione, cui purtroppo non corrisponde però una piena consapevolezza sulle prospettive. In particolare, l’unica via d’uscita che si riesce a considerare è quella del “più Europa”:

È giunto il momento che i governi e le istituzioni di Bruxelles si assumano le loro responsabilità. Anche per questo, in conclusione, serve un’Europa più unita e più forte. Se guardo allo scenario internazionale a seguito dell’elezione di Trump, questa necessità mi sembra ancor più drammaticamente urgente. Forse, senza coltivare l’illusione in tempi brevi di una nuo­va Costituzione europea, si dovrebbe partire da una cooperazione rafforzata almeno tra i paesi dell’area dell’euro, che appare essenziale anche per difendere e rilanciare la moneta unica.