Ogni decisione sul commercio, sulle imposte, sull’immigrazione, sulla politica estera sarà presa a beneficio dei lavoratori americani e delle famiglie americane. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni derivanti dal fatto che gli altri paesi producono i nostri prodotti, ci rubano le nostre imprese e distruggono i nostri posti di lavoro

In questo frammento del suo discorso di insediamento c’è il cuore del messaggio del neo-presidente Donald Trump. Un messaggio di protezione rivolto agli americani, che dipinge un mondo di competizione ostile in cui compito del governo è quello di proteggere i “suoi”. Un messaggio di chiusura, che riaccende il senso di appartenenza individuando la minaccia all’esterno della comunità nazionale. Un messaggio semplice, penetrante ed essenziale, in cui l’essenza del populismo nazionalista non potrebbe essere espressa in modo più chiaro.

Superato il primo momento di shock, una domanda sorge tuttavia prepotente: cosa è in grado di contrapporre la sinistra, la “mia” sinistra, a questo messaggio? Non mi riferisco ovviamente al terreno degli ideali e dei valori, ma ad una risposta al senso di smarrimento e insicurezza delle classi medie e della working class colpite dalla crisi finanziaria e dagli effetti della globalizzazione. Cosa rispondiamo ad una generazione, la mia, che sta sperimentando il tradimento del “patto” – studia, lavora e fai del tuo meglio e in cambio avrai una posizione dignitosa nella società — su cui si sono rette a lungo le società occidentali? E quale alternativa siamo in grado di proporre alla generazione successiva, quella dei miei amici più giovani, dei miei studenti e dei miei figli, per i quali la migliore o unica opportunità sembra essere quella di andare a studiare all’estero e magari rimanerci per trovare un buon lavoro?

Uguali opportunità per tutti, d’accordo. L’uguaglianza, la libertà, il riconoscimento dei diritti individuali. Per chi ha inclinazioni più liberali il riconoscimento del merito. Ma mi chiedo quale forza di attrazione possa esercitare un’idea di giustizia e dei diritti declinata in modo astratto. Pensiamo veramente di poter rispondere che sì, caro operaio occidentale (o caro insegnante, impiegato, artigiano), è vero che la globalizzazione ti ha portato a stare peggio di tuo padre, ma puoi consolarti pensando che in Cina ora abbiamo una classe media e la povertà globale è (marginalmente) diminuita. Possiamo accontentarci di rigettare come barbara e retriva la domanda di protezione che l’individuo chiede alla propria comunità e ai propri governanti?

Porsi questa domanda ci costringe a riconsiderare alcuni snodi che avevamo risolto forse troppo frettolosamente. Ad esempio, come si concilia la responsabilità che nelle scelte politiche abbiamo verso l’umanità nella sua totalità con quella verso la nostra comunità di appartenenza? E quale consistenza etica ha tale comunità? Il nazionalismo risorgente che dice “America first” dà una risposta netta e semplice; ma non è semplicistica anche la posizione di chi abbraccia un ingenuo globalismo dei diritti? Il punto di riferimento non può essere chi, per mezzi e talento, è in grado di dire “the world is my oyster” (non nel senso di Shakespeare, semmai più in quello di un celebre lato B di un classico della musica anni ‘80)?

Non ci sono risposte ovvie. E questi temi genereranno forti controversie e divisioni, soprattutto a sinistra, magari ridisegnando la stessa geografia politica che ci è familiare. Ma è chiaro che a questo punto non può bastare la (sacrosanta) indignazione verso il razzismo, il nazionalismo e l’affermazione della supremazia bianca. A quel bisogno di protezione occorre rispondere, bisogna ricostruire un patto sociale. Solo così potremo scongiurare una deriva che può avere esiti disastrosi, e che non era così impossibile prevedere, se Richard Rorty, sferzando la sinistra culturale americana, poteva scrivere già venti anni or sono parole che oggi ci sembrano profetiche:

[I] lavoratori sindacalizzati e quelli non organizzati senza qualifica, prima o poi si accorgeranno che il loro governo non sta nemmeno tentando di evitare che i loro salari si riducano e che i loro posti di lavoro vengano trasferiti all’estero. E contemporaneamente si accorgeranno che i colletti bianchi urbani – essi stessi terrorizzati dalla prospettiva di perdere il lavoro – non saranno disposti ad accettare aumenti di imposte per garantire benefici sociali ad altri.

A quel punto, qualcosa si romperà. L’elettorato non suburbano deciderà che il sistema ha fallito e inizierà a cercare l’uomo forte da votare, qualcuno che possa assicurare, una volta eletto, che le danze non saranno più condotte dagli orgogliosi burocrati, gli strapagati venditori di titoli finanziari, i professori postmoderni. (…) E una volta che l’uomo forte avrà preso il potere, nessuno potrà prevedere cosa accadrà. (…) Una cosa che è molto probabile accada è che i traguardi raggiunti nei passati quarant’anni dai neri, gli omosessuali ecc. saranno d’un colpo cancellati.

— Richard Rorty, Achieving our Country, Harvard University Press, 1997 (p. 90, trad. mia)